Washington – Il supermartedì, la giornata più importante delle primarie repubblicane, in cui hanno votato una decina di stati, ha confermato che il più probabile candidato alla Casa bianca è Mitt Romney, il più moderato dei contendenti. Romney ha vinto di strettissima misura nell’Ohio, che dai sondaggi doveva andare al suo principale antagonista Rick Santorum, e ha perso in Georgia, lo stato di Newt Gingrich, il terzo uomo della contesa elettorale. Ma nel complesso l’ex governatore del Massachusetts, primo in sei delle primarie, ha rafforzato la propria posizione. Mentre le primarie repubblicane rimangono aperte, e mentre sono ancora possibili clamorosi colpi di scena, la logica vuole che a novembre l’America sia chiamata a scegliere tra lui e Obama. Una fortuna per il Paese, che non ama gli estremismi.
L’altra indicazione fornita dal supermartedì è che il Tea party, la base di Santorum e di Gingrich, è in declino, proprio quando sul versante democratico dovrebbe emergere l’Occupy Wall street movement, ossia il movimento degli indignati. Una indicazione cruciale. Il declino della destra fondamentalista significa che Romney si sposterà al centro per essere libero di accusare Obama, il candidato degli indignati, di spostarsi a sinistra. E infatti l’ex governatore del Massachusetts ha già cambiato tono, schierandosi per il ceto medio, la grande vittima della crisi finanziaria ed economica oggi in corso. Ma Obama, che si è dimostrato pragmatico e centrista, avrà buon gioco a respingere l’accusa. Il presidente ha dalla sua la crescita dell’economia e il calo della disoccupazione in America. Dato perdente fino a pochi mesi, Obama appare adesso vincente.
Lo spot pubblicitario televisivo di maggior successo del “superbowl”, la finale della coppa di football americano, lo spot della Chrysler, passerà alla storia come una metafora della rinascita di Obama e della ripresa economica degli Stati Uniti nella crisi più grave dalla Grande depressione degli Anni trenta. Nello spot, trasmesso nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, Clint Eastwod dichiara che l’America è a metà del match, il suo sforzo di risollevarsi, e può vincerlo, “come Detroit ha dimostrato”. Detroit, il tempio dell’automobilismo e dell’industria americani, i cui giganti nel 2008 parvero destinati a scomparire, ma che si sono risollevati dopo essere stati salvati dallo stato. Ripresa a cui Sergio Marchionne ha dato un sostanziale contribuito con il rilancio della Chrysler. Per il presidente, il messaggio della icona hollywoodiana non poteva essere più incoraggiante e tempestivo. Obama ha varato ciò che ancora manca all’Italia dell’austerity per uscire dalla crisi: una politica industriale. Nel “Messaggio sullo stato dell’unione” di fine gennaio, il discorso programmatico dell’anno, Obama esortò gli industriali americani a chiedersi “come creare nuovi posti di lavoro e come portare a casa quelli mandati all’estero”. In cambio, promise, “noi faremo tutto il possibile per aiutarvi”. “Possibile” che il suo consigliere economico Gene Sperling ha così sintetizzato: “Sgravi fiscali, appoggio finanziario, corsi per la manodopera, agevolazioni nei trasporti”. Sono strumenti, ha sottolineato Sperling, usati da potenze che eccellono nelle esportazioni come la Cina, la Germania e il Giappone. E che adesso impiegherà anche l’America.
In un’economia prevalentemente di servizi come quella americana, una politica industriale potrebbe sembrare anacronistica. Ma Sperling riferisce che in America, dopo avere perduto 2 milioni e 300 mila posti di lavoro, il settore manifatturiero ne ha creati 350 mila, e la sua produzione è ora il 95 per cento di quella del 2007, l’anno precedente l’inizio della crisi. Inoltre nel 2010 una multinazionale americana su cinque ha chiuso una fabbrica all’estero per aprirne una in casa, un fenomeno battezzato “on – shoring”, riportare sulla costa, l’opposto di “off shoring”, trasportare al largo. Sono sintomi, sostiene Sperling, “di una inversione delle tendenze più recenti e dannose, inversione che lo stato deve rafforzare e indirizzare nell’interesse dei cittadini”. Indirizzare dove? “In primo luogo allo sviluppo di nuove tecnologie che rendano l’America più competitiva” risponde il Nobel della economia Michael Spence. Fattori esterni facilitano il varo della politica industriale di Obama. Il progressivo aumento del costo del lavoro nei colossi emergenti, dove le imprese americane avevano trasferito le fabbriche contro la volontà dei sindacati, il cosiddetto “outsourcing” o consegna ad altri di risorse, un fenomeno paragonabile a una fuga legalizzata di capitali, secondo i suoi critici. La riduzione degli stipendi e dei salari in America, la superiorità della sua manodopera e la maggiore disponibilità degli stessi sindacati a collaborare. Le spese dei trasporti da un continente all’altro. Il graduale deprezzamento del dollaro. A parere di Spence, è in corso un ripensamento sugli effetti della globalizzazione: “Ci stiamo rendendo conto di quanto siano importanti la qualità dei prodotti e la vicinanza del mercato”. Si tratta di fattori che agevolerebbero anche una politica industriale in Italia, politica di cui vi è bisogno per controbilanciare le conseguenze della austerity.
Certamente, il modello Obama non sfuggirà al governo Monti. E’ un modello che fa perno innanzitutto sullo strumento fiscale. Obama non solo concederà sgravi alle imprese che riprenderanno a produrre in America. Li toglierà anche a quelle che continueranno a produrre all’estero tassandone anzi parte dei profitti. E, come ha detto Sperling, cofinanzierà con privati le imprese che investiranno nelle aree depresse del paese e nelle alte tecnologie. Una cosa Sperling ha taciuto: il presidente creerà una “task force” dei commerci e delle monete con esperti di intelligence per combattere il protezionismo. Spera di incrementare così le esportazioni e limitare le importazioni da colossi come la Cina. E’ ovvio che il modello Obama non debba e non possa essere copiato pedissequamente in Italia. Ma, vale la pena di ripetere, esso stabilisce due principi base: che senza nuovi posti di lavoro non si supera la crisi, e che a tale fine occorre una solida politica industriale. Politica che in Italia può essere più facilmente accompagnata da un programma di lavori pubblici che non in America, dove è bloccato dalle destre.
La visita a Washington di Monti non poteva svolgersi in un momento più propizio per il nostro paese, sebbene l’euro rimanga in balia dei venti dei mercati. Obama ha riservato al nostro premier onori prima negati a Berlusconi, a cui non aprì mai le porte della Casa Bianca. Un riconoscimento che con le riforme e i sacrifici degli italiani il governo Monti ha acquistato credibilità anche all’estero. Ma altresì un invito a rafforzare la sua credibilità in Italia con il rilancio dell’economia.
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