Washington – Il prossimo martedì, al secondo dibattito televisivo con il candidato repubblicano Mitt Romney, sapremo probabilmente se il presidente Barack Obama sarà rieletto o no. Obama ha perso il primo round e per rifarsi deve vincere il secondo e il terzo, perché l’avversario lo ha già affiancato nella maggioranza dei sondaggi e in alcuni lo ha anche superato. Il presidente è in una posizione delicata: in testa sino a settembre, rischia di perdere ulteriormente terreno. Se non venisse rieletto sarebbe un brutto colpo per il ceto medio americano, e ancora più per quello europeo. Romney è il candidato di Wall street, e a Wall street non interessa la gente comune e tanto meno l’Europa. Wall street vuole Romney presidente perché pensa che le ridurrebbe le tasse, deregolamenterebbe i mercati e le consentirebbe di speculare su paesi come l’Italia. Daren Acemoglu, uno dei più giovani e brillanti economisti del MIT, il Massachusetts institute of technology, e James Robinson, un docente di scienze politiche dell’Università di Harvard, hanno scritto un libro che ha innescato negli Stati uniti un dibattito tanto acceso quanto quello causato venti anni fa da “La fine della storia” di Francis Fukuyama. Pubblicato dall’editrice Crown con il titolo “Perché le nazioni falliscono: le origini del potere, della prosperità e della povertà”, il libro s’inserisce nella recente, fittissima saggistica sulla grave crisi finanziaria ed economica provocata dal “crack” delle borse del 2008, da “Bancarotta: l’economia globale in caduta libera” del premio Nobel Joe Stiglitz a “Il contagio: perché la crisi economica rivoluzionerà le nostre democrazie” della economista Loretta Napoleoni, da “La crisi non è finita” di Nouriel Roubini e Stephen Mihm a “2012 la grande crisi” dello storico Aldo Giannuli. Ma a differenza di essi trascende l’attuale emergenza per analizzare in oltre 500 pagine la storia politica, economica e sociale di molte nazioni, e per proporre una nuova dottrina. Che le nazioni fioriscono quando sono “inclusive”, cioè se sviluppano politiche e istituzioni condivise che offrano pari opportunità a tutti o quasi, incoraggino le innovazioni e distribuiscano ampiamente il potere nelle sue varie forme. E che le nazioni falliscono se sono “estrattive”, ossia se le loro politiche e istituzioni sono dirette a concentrare ricchezze e poteri nelle mani dei pochi, a danno dei più. E proprio questa è la differenza tra Obama e Romney.
Obama è il politico della inclusione, Romney lo è dell’estrazione. Con Obama presidente, gli Stati uniti tornerebbero a essere una forza costruttiva non solo per il ceto medio americano ma anche per l’Europa. Con Romney no, sarebbero una forza al minimo semidisruttiva. Proprio in quanto trascende l’emergenza “Perché le nazioni falliscono” merita particolare attenzione. Il libro, che è estremamente attuale in primis per l’Italia, appartiene in realtà a illustre filone storiografico americano, quello della ricerca dei motivi della grandezza e decadenza degli imperi, e del successo o fiasco delle normali nazioni: basta citare “Crescita senza sviluppo” di Robert Clower e George Dalton (1961); il celebre “Ascesa e declino delle grandi potenze” di Paul Kennedy (1987); e “Violenza e ordini sociali” di Douglas North, John Wallis e Barry Weingast (2009). Tutti sottolineano il ruolo primario delle istituzioni politiche e economiche nello sviluppo di una economia sostenibile ed equa, e “Violenza e ordini sociali” propugna una tesi simile a quella di “Perché le nazioni falliscono”. Se la finanza e l’economia deragliano, come è accaduto nel 2008, e non ritrovano la strada, è per ragioni politiche e istituzionali, perché i mezzi tecnici per risolvere una crisi sono quasi sempre disponibili. Uno dei punti più controversi della dottrina della “inclusione” e della “estrazione” (ma potremmo dire esclusione) di Acemoglu e di Robinson concerne la cultura e il costume. Troppo spesso, sostengono l’economista e il politologo, la colpa del fiasco economico di una società viene attribuita a essi. Ma le istituzioni possono cambiare cultura e costume. I due adducono a esempio il meridione italiano, confutando la tesi di Edward Banfield nel libro “La base morale di una società arretrata” (1958). Il meridione italiano sarà sempre povero, opinò Banfield, “perché non ha il capitale né i valori sociali necessari a un’economia moderna”. E per enfatizzarlo pubblicò la foto di due ceffi sospetti con la didascalia: “Vi fidereste di italiani così?”. Secondo Acemoglu e Robinson, con migliori governi politiche e istituzioni il meridione decollerebbe. Essi citano gli enormi progressi registrati dagli ex paesi comunisti dopo il crollo dell’impero sovietico, quello di Israele vis a vista ai paesi arabi, e via di seguito. Francis Fukuyama è uno dei critici di “Perché le nazioni falliscono”. In sostanza, rileva, il messaggio del libro è che le democrazie devono avere la massima partecipazione popolare possibile, e che non possono essere “un sistema economico e sociale ad accesso limitato”, numero chiuso diremmo in Italia. Come ammonì Samuel Huntington, lo scomparso autore de “Lo scontro di civiltà”, prosegue Fukuyama, “tale partecipazione destabilizza la politica e l’economia se non viene incanalata nelle istituzioni adatte”. Quando ciò si verifica tuttavia, conclude, il potenziale di ciascun cittadino può essere messo a buon frutto, nell’interesse di lui e dell’intera nazione. Ma le obiezioni di Fukuyama sono restrittive. Il messaggio di “Perché le nazioni falliscono” è più complesso. Di fatto il libro contesta che il libero mercato sappia autogovernarsi come proclama Wall street, esorta lo stato a varare riforme e a ridurre la burocrazia, esortazione cruciale per l’Italia, lo invita a non temere i cambiamenti, senza i quali la politica e l’economia prima o poi si fossilizzano.
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