‘Ve lo dico per l’ultima volta: il mio nome si pronuncia Julian, alla spagnola, con l’accento sulla a e con la jota aspirata, non con la g…’. Cordiale ma serio, l’ ‘Obama Latino’, come l’hanno già ribattezzato, arriva a Charlotte precisando come si dice il suo nome. Sulle sue origini messicane non transige. Sindaco democrats di San Antonio, una mosca bianca nel Texas, feudo ultra-conservatore, figlio di emigranti, assieme a Michelle tiene banco alla prima giornata della Convention obamiana. A lui, a questo talentuoso trentasettenne, dai capelli corti e il volto olivastro, Barack ha affidato un ruolo molto importante, pronunciare il keynote speech, il discorso chiave, considerato l’intervento politicamente piú rilevante dopo quello del presidente e del suo vice. Una scelta che mette in chiaro quanto Obama punti sul voto degli ispanici, che al grido ‘Si se puede’, 4 anni fa contribuirono al suo trionfo, votando in massa alle presidenziali.
Una sorta di passaggio del testimone, se pensiamo che fu proprio uno sconosciuto senatore dello stato dell’Illinois, di nome Hussein Barack Obama, nel lontano 2004 a essere scelto per lo stesso ruolo dall’allora candidato presidente, John Kerry. I due, Julian con accento sulla a, e Barack ‘l’africano’, hanno storie molto simili, sono ambedue simboli viventi di un sogno americano che s’e’ trasformato in realtà. Una prova vivente che la land of opportunity, la terra delle opportunita’, al di la’ degli eccessi retorici, e’ ancora una realtà. Figli di single mum, hanno studiato ambedue ad Harvard e hanno una storia d’immigrazione alle spalle.
Appartengono alle due piú importanti minoranze razziali del Paese, quella afro-americana e quella latina. E ambedue hanno la politica nel loro dna, nel loro sangue. Se il padre di Barack si batteva contro l’imperialismo inglese in Kenia, la madre di Julian, Rosie Castro, oggi 65enne, negli anni ’70 era in prima linea nella lotta per i diritti civili degli ispanici. Portava Julian e suo fratello gemello, Joaquin, alle marce di protesta sin da quando avevano 8 anni. E oggi, figlio d’arte, castro cammina lo stesso percorso a difesa dei diritti degli ultimi. ‘Oggi – spiega Castro – grazie alle loro lotte la situazione e’ molto migliorata. All’epoca c’erano cartelli con su scritto: ‘non e’ permesso l’ingresso a cani e messicani’. Da tempo sono scomparsi. Ma c’e’ ancora molto da fare. E come dimostra la storia della mia famiglia, noi latinos con il nostro lavoro abbiamo fatto piú forte e piú grande questo Paese. Il futuro dell’America, la sua ripresa, dipende in parte anche dal successo della nostra comunità, e dalle opportunità che avremo di andare sempre avanti’.
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