Secondo quanto emerge dal saggio di Leopoldo Nascia (ricercatore e membro della redazione di Sbilanciamoci!) e Mario Pianta (professore ordinario di politica economica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, sede di Firenze), anticipato ieri pomeriggio nella web conference “Vecchia” e “nuova” emigrazione italiana all’estero, organizzata dal Centro studi e ricerche Idos (che firma anche l’annuale Dossier Statistico Immigrazione), l’Italia ha perso negli ultimi anni 14mila ricercatori. Una vera e propria emorragia.
«Dal 2008 al 2019 si possono stimare circa 14 mila persone che hanno conseguito un dottorato di ricerca in Italia, dove erano residenti prima dell’immatricolazione all’università, e che sono emigrate permanentemente all’estero. Stima peraltro prudente, che non considera i laureati che erano già andati all’estero per conseguire il dottorato e hanno proseguito lì la carriera».
«I nostri ricercatori all’estero producono ottime pubblicazioni, più numerose rispetto a quelle di francesi e tedeschi», ha sottolineato Nascia durante la conferenza. E in relazione alla dimensione del sistema di ricerca italiano, «la migrazione dei dottori di ricerca possiede un peso elevato. Il numero di dottori di ricerca che sono emigrati tra il 2008 e il 2019 all’estero è pari a circa un quarto di tutto il corpo docente delle università italiane. Se tornassero tutti in Italia, le università recupererebbero i livelli di personale che avevano prima della crisi del 2008. Peraltro i 14.000 dottori di ricerca emigrati all’estero sono all’incirca lo stesso numero degli assegnisti di ricerca presenti nelle università italiane, coinvolti in progetti di ricerca, ma che non fanno parte del personale strutturato delle università».
Secondo i dati Istat – fa rilevare in un altro saggio Alessandro Rosina, docente di demografia presso l’Università Cattolica di Milano – «nel 2018 oltre la metà di chi si è trasferito aveva un titolo di studio medio-alto, con una crescita del 45% rispetto ai 5 anni precedenti. In valore assoluto i laureati sono stati 29 mila e solo circa la metà (15 mila) ha fatto il percorso inverso. Una perdita netta che in dieci anni arriva a superare le 100 mila unità».
«Nella possibilità di andare all’estero c’è la componente positiva della scelta ma anche quella negativa della necessità, rafforzata ulteriormente dopo la recessione del 2008. Retribuzioni più elevate e capacità di crescita professionale in un contesto che premia le competenze, l’impegno, la voglia di fare: questo fa soprattutto la differenza nella componente della nuova emigrazione», ha rilevato ancora Rosina, che ha invitato a considerare i giovani “expat” «una ventunesima regione italiana che deve avere la possibilità di essere riconosciuta e messa in relazione, per diventare nodo di una rete e contribuire al proprio Paese oltre i confini».
Se gli italiani iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero (Aire) erano quasi 5,5 milioni nel 2019, oltre la metà dei quali “espatriati” soprattutto per lavoro, , ha dichiarato
Emanuela Del Re, vice ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, ha spiegato che al 31 ottobre 2020 «negli schedari consolari risultano iscritti 6 milioni 240 mila italiani – cifra che comunque resta parziale, perché “di moltissimi italiani non abbiamo notizia” -, il doppio di 15 anni fa: una popolazione pari a 2 volte quella di Roma, presente soprattutto in Paesi europei, mentre in Argentina vivono oltre un milione di connazionali, oltre a quelli in Brasile, Venezuela, Stati Uniti, Canada, con una presenza crescente anche in Sudafrica».