Nel luglio 2004 Giulio Tremonti fu congedato dal governo di centrodestra per questioni politiche – l’ostilità di Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini – e di merito: la sua proposta di riforma fiscale, con due aliquote "flat" al 23 e 33 per cento fu giudicata troppo liberista. Stavolta il ministro dell’Economia è in discussione per motivi diametralmente opposti: la pressione delle tasse cresce (c’è chi calcola che quella vera sul lavoro dipendente, comprese addizionali e tributi vari, abbia già superato il 50%), e con la manovra di agosto rischia di inerpicarsi a livelli insopportabili. Livelli insopportabili per peso e iniquità. Il prelievo di solidarietà non solo ha scatenato le giuste proteste di chi ha la sola colpa di pagare le tasse, anche per gli altri, ma viola palesemente una legge dello Stato, la 212 del 2000, meglio nota come Statuto del contibuente. Il prelievo, si è scoperto, è infatti retroattivo, si applicherebbe cioè già a tutto il 2011, in contrasto con il divieto di imporre disposizioni tributarie di questo tipo. Non solo. Il prelievo, nella nuova versione, si applica sul "reddito complessivo" e non sull’imponibile come invece tutte le imposte sui redditi. La differenza non è da poco: al reddito complessivo concorrono anche voci quali la prima casa, finora deducibili fiscalmente. Il paradosso è che sia il premier, sia i cittadini, hanno scoperto queste sorprese dalla lettura attenta della manovra, più o meno nascoste tra una riga e l’altra. Basterebbe questo per incrinare un rapporto di fiducia già logoro. Ma non è tutto.
L’emergenza può indurre a fare di necessità virtù, cioè a prendere decisioni che si traducano in riforme. Era il caso dei costi della politica, della previdenza, di tagli veri alla spesa e agli sprechi pubblici. Ci sono queste riforme? In gran parte per l’opposizione della Lega – che si è nuovamente fatta paladina dei propri interessi elettorali, dai pensionati alle province – non riusciamo a scorgene. Stessa cosa per le tanto volte annunciate a mai realizzate misure per la crescita. Non se ne vede traccia nell’intero pacchetto del governo: eppure la mancata crescita è oggi il problema all’ordine del giorno dell’agenda di ogni governo mondiale, dalla Germania alla Francia, fino agli Usa. Ma il rapporto Berlusconi-Tremonti è anche la lama del rasoio sulla quale si muove il futuro del Popolo della Libertà e del centrodestra in generale. I malumori che pervadono il Pdl, le aperture di molti suoi dirigenti (a cominciare da segretario Angelino Alfano) in direzione di Casini sono tutti nel segno del recupero di un’identità moderata, solidale, liberale: qualcosa di antitetico rispetto al dirigismo vagamente socialisteggiante che il ministro dell’Economia si è messo a cavalcare da un bel po’. "Siamo nati per liberare l’Italia dalla gabbia dello Stato e delle troppe tasse; dopo quasi vent’anni ci troviamo con più Stato e più tasse" dicono esponenti storici come Antonio Martino. Come dal loro torto? Ecco perché è ormai assolutamente indispensabile non una nuova cacciata di Tremonti – non è questo il momento, sarebbe un segnale sul quale la speculazione si getterebbe a pesce – ma una chiara ripresa di leadership da parte del premier. Cosa che del resto è già in atto.
In ogni parte del mondo sono i capi di governo, non i loro ministri finanziari, a decidere in nome della politica che cosa è indispensabile per mettere d’accordo gli interessi dei singoli paesi con quelli più generali di difesa dagli arrembaggi dei mercati. Non sempre i leader ci riescono: ma cosa peggiore è certamente delegare responsabilità troppo grandi per un uomo solo, chiunque egli sia.
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