Nella stessa area, a meno di tre settimane dal terribile, precedente sisma, un altro terremoto di magnitudo 5,7 ha colpito la Turchia, con epicentro a 16 chilometri a sud della città di Van e scossa principale alle 20,23 di ieri, ora italiana. Per ora il bilancio è di 7 morti e di centinaia di persone disperse, con un numero imprecisato di individui sotto le macerie. Nella zona di Van, dalla scossa del 23 ottobre, con magnitudo 7,6, si sono susseguite molte altre scosse. Dopo il nuovo sisma, le ricerche si concentrano attorno alle macerie di due hotel e di un edificio residenziale. Uno degli alberghi è il Bayram Hotel, molto noto in città, vecchio di quattro decenni ma ristrutturato solo l’anno scorso. Vi soggiornavano anche giornalisti che seguivano i soccorsi alle popolazioni colpite dal sisma del mese scorso. L’agenzia di stampa Dogan ha scritto che due suoi reporter sono dispersi. Al Bayram alloggiavano anche componenti di squadre di soccorso straniere. Tra quanti sono stati estratti vivi, figurano due giapponesi, un uomo e una donna, dell’Associazione per l’aiuto e il conforto (Aar). Scrive Reuters che sono 23 finora le persone estratte vive dalle macerie dei due hotel. E se il terremoto non abbandona la Turchia, in Cina continuano i disastri minerari causati dall’uomo, con 43 persone rimaste intrappolate stamani, mentre lavoravano nella miniera di carbone di Sizhuang, nella provincia sud occidentale di Yannan.
Sempre in Cina, giovedì scorso, 8 minatori sono morti in un altro incidente nel sud del Paese e 45 persone sono state tratte in salvo sabato, dopo essere rimaste intrappolate 40 ore in una miniera di carbone. Ora, nella miniera di Sizhuang, 200 soccorritori delle squadre di emergenza stanno scavando un piccolo tunnel di soccorso, alla profondità di 500 metri sotto terra, per raggiungere i minatori intrappolati. Ma non si sa quali siano le condizioni strutturali della miniera e in che stato si trovino i minatori rimasti bloccati dalla caduta delle rocce. Il portavoce del gruppo minerario pubblico Henan Yima Coal Mine Group, gestore della miniera, ha affermato che si sta lavorando intensamente per raggiungere i superstiti. Non si può non sottolineare il fatto che le miniere della Cina abbiano i più bassi standard di sicurezza e siano considerate le più pericolose del mondo: ogni anno una media di 2500 di minatori perde la vita a causa di frane, esplosioni e inondazioni. Lo scorso anno sono morti in Cina 2.433 minatori, stando alle statistiche ufficiali, ossia più di sei al giorno. Secondo quanto risulta al China Labour Bulletin (associazione che si occupa di diritti del lavoro di base a Hong Kong), la pratica di coprire gli incidenti allungando una mazzetta ai sopravvissuti è abbastanza comune. Per quanto possa essere costoso è sempre più economico dei risarcimenti stabiliti dalla legge o dell’eventualità di ritrovarsi la miniera chiusa per non avere rispettato gli standard di sicurezza, peraltro estremamente permissivi. In realtà, per coprire gli incidenti nelle miniere in passato sono state prese misure ben più drastiche. Nel maggio del 2002, secondo quanto diffuso dai media cinesi ufficiali, 21 minatori intrappolati da un’esplosione in una miniera nel nord-ovest del paese, sono stati sepolti vivi. Invece di tentare di salvarli il padrone si è affrettato a cancellare i loro nomi dal libro paga, sperando di mettere tutto a tacere. Un altro episodio è emerso nel giugno del 2003, quando le autorità hanno scoperto una fossa comune che conteneva i corpi di 36 uomini uccisi da un’esplosione in una miniera d’oro: il loro occultamento era servito per evitare il blocco dei lavori.
L’incredibile crescita economica cinese ha dei costi sociali altissimi. I minatori che accettano di occultare la sorte dei propri compagni fanno parte di quell’esercito di manodopera a basso costo – un centinaio di milioni di persone – che sciamano dalle campagne impoverite verso le zone industriali e che non possono assolutamente permettersi di perdere il lavoro. Mentre per alcuni aspetti il governo cinese si è mantenuto alla larga da alcuni degli assiomi della globalizzazione liberista, per altri si iscrive perfettamente nella sua logica. Su questo inferno cinese il regista dissidente Li Yang ci ha girato un film “il pozzo nero” del 2010 e Cai Shanjun, commosso e atterrito critica e pubblico all’ultimo festival di Venezia con la toccante ed atroce pellicola Ren Shan Ren Hai (People Mountain People Sea), che racconta di una Cina senza regole, dove regnano la sopraffazione e lo sfruttamento, dove la polizia o è inetta e inefficace o è corrotta. E poi mafia, famiglie sfasciate e derelitte, figli che le madri non vogliono avere vicino. Un universo spaventevole di anime perse, mentre la modernità avanza sempre più aggressiva (assistiamo anche al tossico che si fa di eroina piantandosi la siringa nel pube attraverso i jeans: una roba così non l’avevamo vista neanche nei più tosti film indie americani sui junkies). Un Paese che è stato grande ed ora appare senza speranze, che abbina il peggio del comunismo (l’illibertà) al peggio del capitalismo più selvaggio e, di sicuro, uccide tutte le illusioni.
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