Giorni fa all’Università di Roma3 si è tenuto un convegno sulla censura, guidato da un noto regista che insegna al Dams, Giancarlo Sammartano e da una giovane brillante drammaturga, Federica Festa. Loro scopo era capire che funzione abbia avuto la censura nella storia del teatro italiano. Durante la conferenza, con vari interventi fra cui quello della ormai “nostra” Dacia Maraini, si è precisato che il culmine della Censura di Stato, in Italia, si ha nel ’ 38, quando il Minculpop mette all’indice tutti gli autori ebrei. Intanto scoppia la guerra e altre parole si aggiungono al lungo elenco delle proibizioni: Sfollati, Borsa nera, Ebreo, Coglione, Regime, Tortura, Negro, Inghilterra, Resistenza, ecc.
Nel ’ 46 finisce la guerra, cade il fascismo, sparisce il Minculpop, ma l’ufficio Censura rimane in piedi. Nel 1950 ci sono ancora parole e concetti che vengono considerati pericolosi. “La governante di Brancati” viene censurato nel ’52 perché rappresenta l’omosessualità femminile, definita dalla censura “anormale, contraria al buon costume”. Perfino Brecht viene tagliuzzato per una battuta sul Papa. Nel ’62 finalmente qualcosa sembra cambiare: si abolisce la censura in teatro. Ma la commissione è sempre lì: Brecht, Fo, Ronconi, Büchner, Cobelli sono vietati ai minori di 18 anni. Il Living Theatre viene espulso dall’Italia perché mostra dei nudi in scena. E ancora oggi, senza apparente censura, il teatro è come bloccato, in crisi e non da ora, una crisi vastamente estesa, che riguarda l’intero mondo della cultura e dello spettacolo, con riduzione di fondi e, stavolta, carenza di idee, cui, da tre-quattro anni si ripete, bisognerebbe reagire con forza e trovando strade nuove ed originali. Originali, non istrionicamente eccessive, come è accaduto di recente al Teatro di Roma, conquistato dall’invincibile conformismo che ammazza, finito sotto le rassicuranti ali dell’istrione Lavia, con un comitato direttivo fatto di vecchi spesso ultra-ottantenni, che hanno continuato a dettare legge e a decretarne un crollo inarrestabile.
E’ partito invece alla grande il Teatro dell’Opera di Firenze, con un bilancio d’eccezione per il minifestival inaugurale nella nuova casa del Maggio Musicale, che si è chiuso con il concerto di capodanno della Scuola di musica di Fiesole ed ha visto ben 22.000 spettatori, con un incremento del pubblico straniero, in particolare proveniente da Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone, nei quattro sold out: il 21 dicembre, l’inaugurazione con il Maestro Zubin Mehta in diretta su Rai 5; il 22 con il concerto di Stefano Bollani; il 29, con il Ballet Concert e il 31, con concerto diretto ancora dal Maestro Mehta e la festa di Capodanno. Oltre 1 milione i ricavi, di cui il 50% dal botteghino e 50% dalla raccolta sponsor. Ma intanto, da oggi 2 gennaio, il teatro chiude nuovamente per il completamento dei lavori, per riaprire a novembre.
Comunque l’anno passato non è stato tutto negativo: qualcosa di nuovo è nato (o rinato), come certi festival, avviati a divenire punti fermi, come il nuovo Castiglioncello e il nuovo Santarcangelo; oppure Volterra che lotta, per avere il teatro stabile in carcere o l’eccellente stagione del Teatro di Bologna, che oltre agli “Ubu”, ha messo in scena ottimi prodotti e di buon successo, come Mercuzio non deve morire di Armando Punzo (che dovrebbe diventare anche un film) e L’origine del mondo. Ritratto di un interno di Lucia Calamaro (ne sono state presentate tre sezioni: in febbraio si dovrebbe vedere l’opera completata al teatro India di Roma). Ma, a parte queste rare eccezioni, ci si chiede se, anche quest’anno, il teatro non sarà sempre più in crisi: periferico e decentrato, sicuramente con meno fondi di ieri e più di domani e con progressivo assottigliamento del numero delle sale che propongono qualcosa di diverso dall’intrattenimento (come, purtroppo, sembra accadere nel “Valle Occupato” e in poche altri luoghi). Un teatro allo sbando o allo sfascio e con un Sud, anche in questo caso, più penalizzato che il Nord (si pensi solo ai finanziamenti per Scala, Piccolo, Arcimboldo, Teatro Stabile di Torino e Genova, ecc.). Perché, come ha detto di recente Mario Martone, che di teatro s’intende, come si intende di spettacolo e di storia italiana, alle vere differenze che esistono in Italia e che non sono solo quelle tra Nord e Sud, ma tra fasce sociali, anche i sacrifici, a cui oggi siamo chiamati, hanno il sapore della diseguaglianza. Ed è questo il vero grande nodo che un tempo separava i repubblicani dai monarchici e che esiste ancora oggi, in tutte le espressioni anche culturali e ricreative della nostra società. Le differenze in Italia non sono antropologiche ma economiche e sono queste differenze che facevano dire al Gattopardo la celebre frase: bisogna che tutto cambi perché tutto resti eguale.
Non si allarga il pubblico abbassando la proposta, casomai è il contrario ed è questa la nuova sfida per un teatro migliore, all’insegna di una Italia rinnovata e cambiata. Ricordando con Shakespeare, che il teatro è uno specchio e lo specchio non abbellisce, ma riflette la realtà per quello che è, dobbiamo augurarci un teatro sincero che sappia farci davvero guardare allo specchio per cercare di essere migliori.
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