Inizia la sanguinosa corrida. Il nobile toro entra nell’arena e siede al centro: è già condannato a morte. Lì, ad aspettarlo, una platea assetata di sangue ed un torero che lo ucciderà senza pietà. Il gioco è sempre lo stesso, tutti contro uno. Il torero comincia a giocarci un po’, con le sue domande lo guida da destra a sinistra, da sinistra a destra, in un circolo attorno a sé. Ci sono i tori più obbedienti, altri più furbi, ma basta domar sul nascere le intenzioni di ribellione per continuare a farlo girare in circolo, basta accelerare il ritmo delle domande e sovrapporle alle risposte, basta obiettare su un punto per cambiare direzione, non ci vuole molto per intralciarne i passi. Su temi delicati e complessi, poi, è facile in queste condizioni, lasciar credere allo spettatore che la vittima corra su gambe deboli e sfoderi scarsi argomenti su cui far leva. Poi entrano i cavalieri con le loro lance, per pungerlo alle spalle, per innervosirlo, dissanguarlo quel tanto per fargli perdere pressione e poter così torearlo con meno forza e più tecnica. Ecco gli ospiti, fissi e non, chiamati a ‘punzecchiare’ e controbattere, seguiti dai primi applausi di una folla che comincia ad animarsi. Il toro comincia a sentirsi solo ed isolato; in pericolo. Comincia ad innervosirsi e la sua lucidità mentale viene soffocata da un susseguirsi di emozioni forti di rabbia e di paura, e terminerà per svanire nella nebbia della confusione. Si presentano anche i banderilleros per infilzargli le belle lance decorative nelle parti già grondanti di sangue, per incattivirlo e renderlo più aggressivo e reattivo. E vai, ancora a torearlo, ancora ed ancora una volta, fino allo sfinimento, fin quando l’animale stesso sembra arrendersi e chiedere la morte per liberarsi da quell’inferno: è il momento del sacrificio, perché da quell’arena non può e non deve uscirne vivo. Per il matador è una questione d’onore.
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