Tra i problemi di del mondo globalizzato in cui viviamo c’è quello della questione linguistica: è evidente che vi sia uno strapotere della lingua inglese e che i termini di quest’ultima siano sempre più presenti anche nell’italiano. Parole come “imprinting”, “stakeholder” e “Happy hour” hanno sostituito termini nostrani come “apprendimento precoce”, “portatori di interessi” e “aperitivo“.
Nessuno ha dei pregiudizi contro la lingua inglese. Però, noi abbiamo la nostra lingua, una delle più belle del mondo. Autori come Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Pietro Aretino sono rinomati e conosciuti in tutto il mondo. Anche poeti di Oltremanica, come il conte di Surrey Henry Howard (1517-19 gennaio 1547), si ispirarono a poeti italiani, come Petrarca. Non parliamo poi di poeti come Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni.
La lingua italiana non è un patrimonio solo per l’Italia, ma per il mondo intero. Non dobbiamo fare come i nostri vicini di casa francesi, i quali arrivano anche ad inventarsi le parole pur di evitare di usare termini anglosassoni. Non si deve essere sciovinisti. Però, non dobbiamo neppure essere così esterofili da sostituire termini nostrani di uso comune con altri anglosassoni, quando questo si può evitare tranquillamente.
La lingua è parte della storia di un popolo. Anzi, la lingua è un elemento fondante dell’identità di un popolo. Gli italiani all’estero ce lo insegnano. I discendenti dei nostri connazionali emigrati ci insegnano a difendere l’italianità e molti di loro fanno di tutto per conservare la lingua. Una mia amica che abita in Uruguay me lo ricorda sempre: lei fa di tutto per conservare la lingua dei suoi avi. Lo stesso fa un’altra mia amica residente in Spagna.
Essere italiani nel mondo significa essere ambasciatori della nostra cultura e della nostra storia.