Al di là delle singole opinioni sul caso Sallusti, l’Italia è rimasta “un po’ indietro”. L’Unione Europea si è espressa contro il carcere per i giornalisti. La sentenza è del 2009: «Il carcere, ancora previsto in casi di diffamazione a mezzo stampa negli ordinamenti dei Paesi membri, ha un effetto deterrente sulla libertà del giornalista di informare», ha dichiarato la Corte europea di Strasburgo. Le pene detentive, inoltre, non sono compatibili con la libertà d’espressione. Quest’ultima ne risulterebbe influenzata. Il tutto con inevitabile danno al diritto alla libera informazione. Infatti in Francia, Germania e in Svezia la diffamazione, pur essendo un illecito penale, è punita solo con una ammenda pecuniaria. In Germania anche particolarmente pesante. E anche fuori dalla Ue, la diffamazione è regolata diversamente. La Gran Bretagna, nel 2009, ha depenalizzato tutti i reati relativi all’opinione e alla diffamazione, anche se espressi sul web. La Svizzera mostra una garantismo non indifferente. La diffamazione è punita con una pena pecuniaria. Ma solo se è evidente la malafede. Se il giornalista prova di aver agito nell’interesse pubblico non c’è reato. E in ogni caso il carcere non è contemplato. Negli Usa i contorni del reato sono molto stretti e precisi: il contenuto deve essere falso e intenzionalmente malevolo. Nei Paesi Baltici (Croazia, Serbia, Macedonia) è stata eliminata la reclusione da ben 6 anni, anche grazie all’intervento dell’Ocse (l’arresto di vari giornalisti croati non è stato vano). Qui però non si tratta soltanto di una divergenza d’opinioni, di un dissenso politico o culturale. Né tantomeno di una malintesa solidarietà professionale, da manifestare a un collega come un obbligo di categoria o una difesa d’ufficio. La vicenda tocca un nervo scoperto del rapporto fra giustizia e informazione, coinvolgendo tutti noi cittadini di questa Repubblica.
Il rischio che domani il direttore del "Giornale" possa finire in carcere per un articolo scritto da un altro giornalista nel 2007, quando lo stesso Sallusti era reggente di "Libero" e ne aveva quindi la cosiddetta responsabilità oggettiva, rappresenta un’aberrazione giuridica che non può appartenere alla civiltà del Diritto. Non è solo malata una giustizia in grado di produrre una tale mostruosità. È una giustizia che contraddice e nega se stessa, la propria legittimazione democratica, la propria autorevolezza e credibilità. Intendiamoci, anche il diritto d’informazione, inteso come diritto dei cittadini a essere informati più che dei giornalisti a informare, dev’essere sottoposto naturalmente a regole e limiti. A cominciare dal rispetto dell’onore e della reputazione altrui. E quando la pubblicazione di una notizia o di un articolo supera indebitamente questo confine, il Codice contempla il reato di diffamazione, con la possibilità di comminare pene pecuniarie o anche di stabilire un risarcimento sul piano civile. Ma in un Paese democratico non è ammissibile che nel caso di un reato d’opinione, cioè di un reato che si realizza attraverso la manifestazione di una tesi o di un giudizio, si arrivi a sanzionare tali comportamenti addirittura con il carcere. C’è un’evidente sproporzione tra l’offesa e la difesa, tra il danno prodotto da un’azione diffamatoria e la privazione ancorché temporanea della libertà personale. Oltre a ripristinare l’onore e la reputazione altrui, la "giustizia giusta" è tenuta a punire il responsabile con rigore ed equità, senza spirito di vendetta o di persecuzione.
Rispetto al principio fondamentale per cui la responsabilità penale è necessariamente personale, appare pero’ già di per sé mostruoso l’istituto della responsabilità oggettiva che incombe sul direttore di un giornale, per tutto ciò che viene scritto e pubblicato, anche indipendentemente dalla sua impossibilità fisica o materiale di controllarne il contenuto. La legge vigente è punitiva e assurda. Una disposizione di legge ipocrita che ha il solo significato della intimidazione preventiva. Ma è una presunzione giuridica ormai inaccettabile, un automatismo intimidatorio e vessatorio, che configura una forma indiretta di censura preventiva. E rappresenta perciò una grave limitazione – questa sì, davvero oggettiva – alla libertà di stampa. Bene, giusto, perfetto, e basta con questa minaccia perenne e generica sulla testa dei direttori. Anche perche’ nel 99% dei casi il giudice non fa mai indagini per appurare chi ha materialmente scritto il pezzo o i pezzi incriminati. Come invece prevede la legge. Non solo: non si ascoltano nemmeno i direttori "inquisiti". Si va direttamente alla sentenza, ignorando o facendo finta di ignorare le sentenze della Corte Europea. Ma le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo prevalgono sull’ordinamento interno e i giudici italiani hanno l’obbligo vincolante di attenervisi.
Strasburgo afferma che i giornalisti non possono essere condannati al carcere; si tratterebbe quindi di una violazione del diritto dei cittadini ad essere informati. Se esistesse, effettivamente, la possibilità di finire in carcere, nessun giornalista lavorerebbe più. Se i giudici non sono convinti di questo, possono sollevare una questione di fronte alla Corte costituzionale. Perche’ non l’hanno mai fatto?
Eppure dal primo dicembre 2009 la Carta dei diritti fondamentali della Ue e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) sono entrati a far parte della Costituzione europea (Trattato di Lisbona); significa, quindi, che i giudici possono applicarla direttamente. Ma allora perche’ non lo fanno? Perche’ non si attengono a quanto desposto dalla Corte Europea?
E’una situazione paradossale. La stessa Corte costituzionale italiana, nella sentenza 39 del 2008, in riferimento alle sentenze 348 e 349 del 2007 della medesima Corte, ha sancito che i giudici non possano ignorare le sentenze di Strasburgo. Si afferma, in particolare, che «le norme della Cedu devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell’ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi (…). Gli Stati contraenti sono vincolati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu». La condanna di Sallusti, quindi, è nulla. Una legge ritenuta sbagliata dalla Corte di Strasburgo non può rimanere nell’ordinamento italiano.
Che succedera’, allora, domani? Cosa fara’ la Corte di Cassazione? A nostro parere non può fare altro che annullare la condanna. Potrebbe rimettere la questione alla Corte Costituzionale. Ma, essendosi già espressa in merito, non lo farà. Potrebbe, al limite, annullarla con rinvio alla Corte d’Appello, indicandogli la strada da seguire, o cosa pià probabile, annullarla definitivamente in riferimento a Strasburgo. O, come ormai invocano un po’ tutti, produrre un decreto urgente del governo che modifichi l’attuale norma e si metta in regola con la Corte di Strasburgo, un decreto legge che reciti "le pene detentive inflitte per reati mossi a mezzo stampa sono convertite in sanzioni pecuniarie". Perche’ come Sallusti tanti e tanti direttori sono stati inviati al carcere da giudici troppo solerti convinti di interpretare il ruolo di elaborare ipotetiche regole di buon giornalismo con pretese dal vago sapore moralistico. Tocca perciò al ministro della Giustizia, Paola Severino, penalista di grande esperienza e prestigio, trovare adesso una soluzione corretta e ragionevole, per impedire che "in nome del popolo italiano" un cittadino giornalista venga condannato alla reclusione.
Nel nostro sciagurato Paese, collocato non a caso agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali della libertà d’informazione, sono già troppi i vincoli e i condizionamenti che gravano sulla stampa. Non c’è bisogno di mandare in galera i giornalisti per difendere l’onore e la reputazione di nessuno. E neppure di riservare trattamenti di favore a politici e magistrati, come se fossero una casta di intoccabili, per tutelare le prerogative di una categoria composta da tanti rispettabili servitori dello Stato.
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