Il caso è questo: Alessandro Sallusti, direttore de il Giornale, rischia di andare in galera. 14 mesi in cella, come si legge sul sito web del quotidiano schierato, “per un articolo neppure firmato”. Bella roba. Questa è la giustizia italiana. Che si basa, in questo caso, su una legge vecchia come il cucco. E “antidemocratica”, come scrive Vittorio Feltri nel suo editoriale sbattuto in apertura del sito, con titolo a caratteri cubitali. Meritatissimi.
In sintesi: la corte d’Appello di Milano ha condannato Sallusti in tempi record per diffamazione aggravata e non solo per omesso controllo. Da notare che nel testo dell’articolo, scritto da un altro e firmato con uno pseudonimo, non appariva nemmeno il nome del magistrato che si è sentito offeso. Ma con i giudici, si sa, non si scherza: le toghe, specie se rosse, chiedono vendetta. Sempre.
La questione è che per la legge il direttore responsabile di un giornale deve rispondere di tutto ciò che viene pubblicato sulla testata giornalistica. E così Sallusti in questo caso, ma tantissimi altri direttori in altri, sono subissati di querele di ogni tipo: richieste di danni – dunque quattrini da sborsare – e di condanne penali da scontare dietro le sbarre.
I dettagli del caso Sallusti si possono leggere su il Giornale, che – ne siamo sicuri – continuerà a portare avanti la propria battaglia in difesa del direttore e della libertà di stampa. Hanno le spalle abbastanza grosse per farlo. Noi, qui, cerchiamo soltanto di aggiungere alla solidarietà dovuta una nostra amara riflessione sulle conseguenze che questa spada di Damocle che incombe sulle nostre teste produce alla democrazia: vogliamo proprio parlare di questa libertà di stampa e di opinione tanto sbandierata in Italia quanto calpestata ogni giorno.
Rischiare la galera per cercare di far bene fino in fondo il proprio mestiere è un assurdo. Sono sempre di più i politici che abusano dello strumento della querela per intimorire, per intimidire i giornalisti, di solito quelli che danno più fastidio, quelli “da battaglia”, quelli che non guardano in faccia nessuno quando c’è da raccontare i fatti, anche se scomodi, o da esprimere una opinione, anche se spiacevole nei confronti degli interessati. Se poi sono i giudici ad essere solo sfiorati, la condanna penale è garantita.
Ragazzi, qui si rischia la privazione della libertà di ciascuno di noi, non del giornalista soltanto, che potrà farsi pure un periodo in carcere ma sopravvivrà: c’è di mezzo la libertà di fare informazione, la libertà dei lettori di essere informati. A rischio è quella libertà costituzionale che concede a ciascuno di noi la possibilità di conoscere i fatti, formarsi un giudizio e manifestare il proprio pensiero.
La legge che regola i reati a mezzo stampa fa schifo. Feltri lo spiega bene: “l’Italia è l’unico Paese europeo – che dico? occidentale – in cui i reati a mezzo stampa sono valutati dalla giustizia penale anziché da quella civile. Solo le dittature più efferate usano sistemi di questo tipo: un modo violento allo scopo di reprimere ogni tentativo di criticare il regime”. Proprio di questo si tratta: di censura preventiva. Anzi, neppure: le querele servono il più delle volte non solo a tapparti la bocca e a toglierti l’inchiostro alla penna, ma ti proibiscono addirittura di pensare. Questo è il vero obiettivo. Perché pensare poi vuol dire mettere nero su bianco, per chi fa il mestiere del giornalista, le proprie idee. No: è vietato anche usare il proprio cervello.
Ciò che succede nel nostro Paese è una follia, un abuso. Pensate: non esistono assicurazioni che possano coprire i giornalisti da eventuali incidenti di percorso. O meglio, esistevano: poi, però, le assicurazioni stesse si sono rese conto che la querela era uno strumento troppo abusato da politici e simili, e hanno cancellato le polizze.
La legge che regola in Italia i reati di opinione è una legge fascista. Ancora Feltri: “Non vanno linciati i giudici «esagerati», che agiscono comunque in base alle regole, ma chi quelle regole non ha mai avuto il coraggio, e la sensibilità civile, di modificare, adeguandole ai canoni della democrazia liberale. Tra costoro metto anche Silvio Berlusconi che, incoscientemente, non ha provveduto quando avrebbe potuto farlo, imponendosi sui fetenti da cui era circondato, a revisionare il succitato codice. Giuro: a me aveva promesso che avrebbe depenalizzato i reati di opinione. Invece non è riuscito a combinare niente perché la lobby degli avvocati, potente e massiccia in Parlamento, si è opposta. Già: cause che pendono, cause che rendono. Risultato. I giornalisti vanno in galera perché i rischi del mestiere sono questi in Italia: non di pagare con i risarcimenti, come sarebbe giusto, ma di pagare con la detenzione”.
Ed ecco l’attacco del fondatore di Libero: “Vergognatevi tutti, politici dei miei stivali. Si vergognino Berlusconi, Prodi, D’Alema, Amato, Ciampi, Fanfani (anche se è morto), Andreotti, Emilio Colombo, Craxi (anche se è morto), De Mita. Tutti i governi, di destra, di centro e di sinistra. Non solo hanno mandato in malora il Paese: hanno anche ucciso la libertà di stampa nella culla. Io me ne frego. Mi ribello a questa gente che ha pensato solo ai fatti propri, e ha abbandonato i giornalisti, lasciandoli alla mercé di una legge iniqua, fascista e tirannica, pur pretendendo che continuino a fare il loro mestiere. Ma quale mestiere? Come si fa a lavorare serenamente se uno di noi, Alessandro Sallusti, per un articolo che neppure ha scritto, è in procinto di finire dietro le sbarre per un anno e due mesi?”.
Il caso Sallusti ci dà lo spunto per ricordare ai lettori di ItaliaChiamaItalia – chi ci segue da tempo con affetto e attenzione lo sa bene, perché noi ci siamo sempre raccontati – che contro ItaliaChiamaItalia ci sono al momento tre querele: tutte e tre da parte di politici che noi abbiamo criticato per il loro atteggiamento politico, appunto; querele mosse nei nostri confronti per avere riportato fedelmente i fatti o per avere espresso un’opinione che non è piaciuta. I nostri legali ci dicono che queste querele verranno archiviate – speriamo! – perché come giornale abbiamo fatto il nostro dovere. Ma intanto politici arroganti e presuntuosi ci costringono a perdere tempo, soldi, e – pensano loro – ci costringono al silenzio. Ma almeno su questo ultimo punto si sbagliano di grosso: continueremo a portare avanti la nostra battaglia, fuori e dentro i Tribunali, per poter dire con forza la nostra, informare chi ci segue, creare opinione. E, a parlamentari e affini, rivolgiamo per l’ennesima volta un accorato invito: carissimi, lasciate stare i giornalisti, la maggior parte di loro squattrinati, già in mutande, perché con questo mestiere non si diventa ricchi. Invece di querelare, interrogatevi sui vostri comportamenti, e smettetela di considerare una critica un insulto. Vale per ciascuno di noi: e per voi dovrebbe essere ancora di più un incentivo a correggersi e a non ripetere l’errore. Chi querela, spesso vuole zittire, spesso vuole manipolare le notizie, spesso vuole imbrogliare. E il cittadino fa presto a capirlo.
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