Finora il governo Monti, nato su impulso della Banca Centrale Europea e del presidente Napolitano con la motivazione (più o meno reale) di salvaguardare la situazione finanziaria dell’Italia ed alleggerire il peso degli interessi sul debito pubblico, è andato avanti come un treno.
I partiti, intimiditi dall’allarmismo finanziario, sottoposti allo stillicidio dei pressanti “severi moniti” del presidente della Repubblica, timorosi di assumersi la responsabilità della costituzione di un nuovo governo oppure di un aperto scontro elettorale, si sono sottomessi quasi senza discutere alle decisioni di Monti e del suo governo concedendogli in cento giorni ben dodici voti di fiducia, uno ogni settimana.
Poi è arrivato un nodo difficile da sciogliere, quello della riforma delle norme sul lavoro (non usiamo la parola “mercato”, perché il lavoro – come ha detto giustamente Mons. Giancarlo Brigantini, della Commissione Episcopale Italiana, non è una merce, vi sono persone, famiglie, diritti, dignità dietro ogni lavoratore): una riforma di cui per la verità non si comprendeva né l’urgenza né il collegamento con la situazione finanziaria ed il debito pubblico italiani, visto che si tratta di rapporti tra privati.
Stavolta, però, dopo alcuni iniziali tentativi di fare tutto da solo, come è avvenuto con la riforma delle pensioni, il governo è dovuto scendere dal suo piedistallo e sedersi al tavolo delle trattative con le organizzazioni sindacali e datoriali le quali, messe insieme, rappresentano pur sempre la maggioranza delle persone e delle imprese del comparto produttivo privato italiano: rappresentanza convalidata dal fatto che esse, a differenza dei partiti, ogni mese pagano volontari contributi associativi.
E già l’avvio di un “tavolo” è stato un cedimento delle iniziali affermazioni di Monti, il quale nelle sue dichiarazioni programmatiche aveva esplicitamente detto che avrebbe svolto il confronto con le parti sociali e le associazioni professionali secondo il metodo europeo: invio delle proposte di modifica via e/mail mediante i cosiddetti “libri bianchi”, e ricezione delle osservazioni sempre con lo stesso sistema.
Sta di fatto che le trattative piuttosto intense sono durate molte settimane, ed anche qui vi è stato un altro cedimento governativo: le rigide proposte iniziali (tra cui in particolare lo smantellamento del sistema di ammortizzatori sociali a partire dal 2013) sono state via via smussate ed integrate con le osservazioni dei tecnici delle organizzazioni sindacali e datoriali.
Si è così arrivati alla giornata culmine del 20 marzo, quando le proposte del governo così modificate sarebbero state accettate dai sindacati (in particolare, con lo slittamento di ben cinque anni della riforma del sistema di ammortizzatori sociali) se non si fosse voluto insistere su una modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori sui licenziamenti ingiustificati che neanche la Confindustria, memore dell’esperienza pluridecennale di quell’istituto giuridico, pretendeva in modo pregiudiziale.
I sindacati chiedevano una cosa molto semplice: dopo aver accettato il principio (innovativo rispetto al vecchio testo dell’articolo) che fosse il giudice a decidere, in caso di licenziamento disciplinare privo di motivazioni, se vi fosse il reintegro nel posto del lavoro od un congruo indennizzo, volevano che il medesimo criterio fosse indicato per i licenziamenti cosiddetti “economici”. Proponevano anche, per snellire le procedure giudiziarie, di assegnare il giudizio ad un arbitrato od ad una commissione di conciliazione.
Il ministro Fornero ed il presidente Monti non hanno voluto cambiare le loro proposte, ed hanno così provocato la coesione di tutte le confederazioni sindacali. Alla Cgil, già nettamente contraria, si sono aggiunte l’Ugl e l’Uil (entrambe sollecitate dalle proteste delle proprie federazioni di categoria) costringendo anche la Cisl, che aveva dato un parere positivo, ad adeguarsi. Determinante in questa situazione è stata la posizione dell’Ugl, che ha spostato gli equilibri, cosa ammessa anche dal direttore De Bortoli sul “Corriere della Sera” in un suo editoriale del 24 marzo.
Ma non è finita qui. In mancanza di un accordo sindacale, anche maggioritario, Monti e Fornero hanno passato la questione al consiglio dei ministri pensando di agire, come hanno sempre fatto in precedenza, con un decreto legge. Ma i contrasti insorti tra i ministri ed il rifiuto di Napolitano a procedere in tal senso (che aveva preso atto delle posizioni sindacali, delle spontanee manifestazioni di protesta in tutt’Italia, della spaccatura interna al Pd), hanno costretto il governo ad adottare l’ordinario strumento del disegno di legge, dall’iter certamente più lungo e complesso e soggetto a modifiche da parte del Parlamento.
Quindi, la considerazione che può trarsi da questa vicenda è semplice. Mentre i partiti – timorosi di affrontare una campagna elettorale, in perdita di credibilità, con leadership incerte e discusse – accettano passivamente le proposte di legge di questo governo, non nato in Parlamento ed ispirato da forze finanziarie e straniere, limitando la loro attività parlamentare all’approvazione di qualche ordine del giorno (che non ha alcun valore ed alcuna incidenza), i sindacati – che qualcuno dipingeva come privi di rappresentatività, burocratizzati, rinunciatari – sono stati in grado di mettere in crisi il governo fino a rasentarne la caduta.
E questo esempio valga per i tanti che inneggiano al liberismo nel campo del lavoro dipendente, basandosi su esempi (quelli americani, danesi, tedeschi) improponibili per cento ragioni in Italia mentre bisogna tener conto delle realtà sociali esistenti e della volontà dei popoli.
Se poi dobbiamo parlare di questo famoso articolo 18, dipinto da gran parte della stampa come un vincolo indissolubile per i datori di lavoro, lo faremo successivamente.
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