Dei pulloverini di Sergio Marchionne si sa quasi tutto, della sua paga si parla un po’ meno. Più che in termini assoluti, è utile considerare la retribuzione del manager in termini relativi: rapportata a quella media del personale della Fiat, fa 133. Ossia: un dipendente della Fiat deve lavorare almeno per 133 anni (in media: gli operai un po’ di più) per guadagnare quanto guadagna il suo amministratore delegato. Anche i “Ceo” delle banche e delle grandi aziende pubbliche italiane hanno moltiplicatori imponenti, rispetto alle paghe dei lavoratori; ma la Fiat è l’azienda che più si è allineata alla tendenza mondiale dell’ultimo ventennio, ossia la divaricazione crescente tra le paghe dei capi e quelle dei sottoposti. Tendenza che dà una delle caratteristiche principali della crescita delle diseguaglianze nella nostra società: l’emersione di una classe di “working rich”, il cui altissimo livello di entrate è collegato alla posizione lavorativa e non all’eredità o a proprietà, e i cui redditi e consumi viaggiano come in un circuito chiuso, autoreferenziale.
Ricchi e poveri sempre più divaricati in Italia, un Paese che ha accumulato divari di reddito più di ogni altro, negli ultimi anni. L’alta disuguaglianza è un tratto distintivo del nostro paese oramai da molti anni. Dopo un periodo di tendenziale diminuzione, tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, le distanze nei redditi disponibili delle famiglie italiane, già alte nei confronti internazionali, si sono ulteriormente e repentinamente ampliate tra il 1992 e il 1993. In base ai dati del Luxembourg Income Studies, il coefficiente di Gini era al 29 per cento nel 1991 ed è saltato al 34 per cento nel 1993. Successivamente, si sono avute limitate oscillazioni e questo consente di parlare di una situazione di stazionarietà della disuguaglianza, almeno come rilevata dal coefficiente di Gini, che si è protratta per circa un quindicennio, fino alla crisi del 2008 dei cui effetti è troppo presto per parlare. Secondo l’Ocse, il coefficiente di Gini in Italia è peggiorato di circa 3 punti tra metà degli anni Ottanta e metà degli anni Novanta e di un ulteriore punto circa nel decennio successivo.
Per dare un’idea approssimativa di che cosa questo significhi, si consideri che un peggioramento del Gini del 2 per cento si avrebbe, approssimativamente, se tutti coloro che fanno parte del 50 per cento più povero della popolazione perdessero il 7 per cento del proprio reddito a vantaggio del 50 per cento più ricco.
Tutto questo lo dice un libro di 199 pagine, edito dalla Università Bocconi e scritto da un professore di economia della Sapienza, Maurizio Franzini, intitolato "Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili", in cui si parla di una Nazione che accetta le disuguaglianze come fossero una ineludibile fatalità.
E in America? E’ un fenomeno noto e sempre più studiato che negli ultimi trenta anni i salari reali medi degli americani siano rimasti pressoché costanti a fronte di una forte crescita del PIL. Sono diminuiti nel tempo i salari degli americani che hanno un titolo di studio di scuola superiore o che non hanno neanche quello; e sono cresciuti pochissimo i salari di chi ha frequentato qualche anno di università: si tratta di più del 50 per cento della popolazione degli Stati Uniti. Pertanto, la crisi del mercato finanziario è dovuta non solo all’ingordigia e all’irresponsabilità dei banchieri, ma anche a una domanda di credito fondata sul basso tasso di crescita dei salari di più del 50 per cento della popolazione. La domanda di credito si è diretta soprattutto a comprare case i cui mutui non sono poi stati pagati.
In conclusione, il nostro è un Paese ad alta disuguaglianza che se, per ora, non rischia una crisi finanziaria per eccesso di debito privato, lo deve alle generazioni che hanno accumulato in passato. Ma il pericolo, ora, non è scongiurato, anzi.
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