Bavaro, Repubblica Dominicana – Fiona è stata come un treno in piena faccia. Una strega infuriata che ha fischiato, ululato, rombato, soffiato, scoperchiato, abbattuto, distrutto per circa quindici ore, dalle sette di sera di domenica 18 settembre alle dieci e oltre di lunedì mattina. Secondo alcuni è stata peggio di George, che nell’ottobre del 1998 ha spianato il Paese.
In effetti George aveva fatto piazza pulita con la sua immane grandezza, mentre Fiona ha colpito con cattiveria andando a frugare dappertutto con dita graffianti di vento furioso.
La corrente elettrica era già andata via da mezzogiorno. Tutti al buio, niente acqua (senza corrente non funzionano le pompe), niente internet nè tivù né amenità elettroniche di nessun genere; letti bagnati, un freddo della malora. E un enorme frastuono.
La prima raffica è arrivata dolcemente, quasi una brezza di Aliseo, però con uno strano respiro ampio e potente. In mezz’ora si è scatenato l’inferno. Nel buio pesto, folate micidiali, ululati, scricchiolii sinistri, schianti catastrofici, boati di varia intensità. Volava tutto. I gatti spaventati correvano a nascondersi sotto i letti. I cani, muso a terra e orecchie basse. E in sottofondo il rumore fisso del vento ciclonico che dava l’impressione di stare dentro le turbine di un vecchio Boeing, quelle assordanti che facevano male alle orecchie.
E’ andata avanti così per quasi quindici ore. Verso mezzogiorno di lunedì il vento è calato un po’, poi un altro po’. Alla fine, silenzio e pace.
Finito? Finito un corno. Eravamo nell’occhio. L’occhio di un ciclone dura mediamente da quattro a otto ore. Dipende dalle variabili. Questo è durato sei ore.
Sei ore di tregua. Poi è ricominciata, questa volta sotto forma di pioggia torrenziale. Cascate d’acqua che arrivavano a secchiate e picchiavano il suolo come martelli. Durata: altre dodici ore, a fasi alterne fino a martedì. Niente luce, cellulari, Pad, Smart, computer, tutto scarico. Tutti isolati e senza alcuna possibilità di comunicare. Poi finalmente è finita davvero, pur con qualche colpo di coda che dura tutt’ora.
Quartieri appiattiti, cumuli di macerie, un camion ha preso fuoco, non c’è più un solo cartello in piedi, rifiuti a vagonate, strade con mezzo metro d’acqua. Alcuni hotel superlusso a Punta Cana squarciati nelle colonne portanti. L’Oyo, il quartiere povero dove vivono gli haitiani, una poltiglia. Grossi problemi a Higuey (dicono). Niente benzina, supermercati vuoti. Ma qui le cose stanno cosi: passata la paura, è un altro giorno. Incredibile.
Tutti fuori col machete, le cesoie, i secchi, le carriole, i camion, le funi. Si rimettono in piedi alberi, cavi, cartelli stradali e pubblicitari, si potano le piante danneggiate, si tagliano quelle sradicate, si portano via le macerie. I dominicani hanno questa straordinaria virtù che li accomuna un po’ agli italiani: non si perdono mai d’animo, quando arriva il momento lavorano come matti e sono sempre pronti a ricominciare. Uomini, donne, bambini, vecchi. Alè. Nessuno si tira indietro.