Cronaca dell’avventura di un residente all’estero tra i meandri della burocrazia anagrafica, alle prese con la nuova carta di identità elettronica. Istituzione di riferimento, l’Ambasciata italiana di Santo Domingo, Repubblica Dominicana.
Antefatto, l’appuntamento. Lo si chiede per via informatica grazie a un portale di servizio (Fast.it) e in tempi brevi arriva l’assegnazione della data con l’indicazione delle formalità richieste: nel nostro caso (la Cie), il passaporto valido con una copia a colori, due foto formato tessera e 1.400 pesos (una ventina di euro).
Comodo e facile.
Oggi dunque la scena è l’Ambasciata capitanata da Stefano Queirolo Palmas, tra gli ambasciatori più stimati ed efficienti dell’America Latina, che si dice abbia voluto con determinazione il nuovo protocollo (avrebbe solo pochi mesi) per l’assegnazione dei documenti digitali, in una visione generale di organizzazione, efficienza, servizio al cittadino.
L’Ambasciata di Santo Domingo infatti sarebbe tra le prime ad avere fatto questo salto di qualità.
Lo sportello esisteva già, ma era destinato alle formalità normali e sarebbe stato ampliato e organizzato per destinarlo anche ai documenti nuovi: codice fiscale e carta di identità elettronica, familiarmente Cie.
E’ la burocrazia del terzo millennio. Senza la Cie o lo Spid non ci si interfaccia nè con l’Agenzia delle Entrate, nè con l’Inps, nè con il Comune di nascita e in genere con nessuna istituzione del panorama amministrativo.
Per molti è l’ultima spiaggia dopo qualche anno di tentativi inutili col paese d’origine: tempo perso, tormenti, rifiuti, soldi buttati.
Gli Aire annegavano in un circolo vizioso dalla logica contorta: da un lato l’annullamento della Tessera Sanitaria, dall’altro la richiesta di esibire proprio la Tessera Sanitaria come unico documento valido e indispensabile per avere qualunque attestato di riconoscimento.
Oggi dunque siamo qui con una nuova luce di speranza.
Atto primo: ore due del pomeriggio, il sole picchia a martello sulla testa e il riverbero è accecante. Gli “utenti” arrivano alla spicciolata grondando calore. Li riceve un addetto alla sicurezza che li fa accomodare all’ombra di un gazebo bianco allestito per l’attesa nel cortile di fianco all’entrata.
Una piccola oasi di fresco con sedie e poltroncine per aspettare il turno.
Chiamano il primo. Si entra nell’atrio dove comincia il rituale di sicurezza: via gli occhiali da sole, borsa nell’apposito armadietto (come in banca o in certi supermercati), chiave in tasca per farti stare tranquillo. Si prosegue muniti soltanto dei documenti necessari alla pratica e del borsellino per pagare.
Sempre gentile, il Seguridad ti accompagna all’ascensore e ti snocciola le istruzioni di percorso: numero del piano, direzione all’arrivo, guardi che c’è una porta e bisogna attraversarla senza aspettare di essere chiamati. Al di là c’è lo sportello e ti riceve Maria oppure Erica, due fanciulle sorridenti e affabili: le vostre muse che faranno la magia della CIE, o del passaporto, o quel che l’è.
Tutto si svolge in meno di cinque minuti, clima disteso e amichevole, zero difficoltà, niente stress nè file tormentose, ti fanno perfino scegliere la foto da mettere in pagina.
Qualche firma ed è fatta. Con l’invito a tornare dopo due o tre settimane per ritirare il documento.
Rapido e facile.
In fondo non ci vuole poi molto per far le cose bene: basta un po’ di buona volontà, organizzazione, buon senso. Cose a cui noi italiani non siamo troppo abituati.
Ma c’è un’incognita. Perché da questo momento la pratica esce dalla giurisdizione dell’Ambasciata, prende il volo, traversa l’Atlantico ed entra a capofitto nel calderone bollente della burocrazia italiana. E’ il lato dark.
Comunque nessuno demorda. Noi pensiamo positivo. Seduti, come si dice, sulla sponda del fiume, aspettiamo (quasi) fiduciosi. Intanto, magari è il momento di ricorrere al tanto amato scongiuro tradizionale caribeño: “Si Dios quiere…”.