Il pendolo della crescita oscilla ancora tra 0,8% e 0,9%. Si tratta solo di un decimo di punto, che pero’ tradotto in cifre concrete vale 1,6 miliardi di euro e che, soprattutto, nel caso in cui l’asticella dovesse fermarsi a fine anno sul livello piu’ basso della forchetta, rischia di avere un effetto trascinamento sul 2016 pericoloso per i conti pubblici italiani, in primis per deficit e debito.
Il dilemma si era posto gia’ a settembre scorso nella messa a punto della Nota di aggiornamento del Def e si pone di nuovo ora, dopo i dati poco rassicuranti dell’Istat sul terzo trimestre 2015. Tre mesi fa il governo aveva optato per la stima piu’ ottimistica, considerata peraltro prudenziale rispetto alle ambizioni di arrivare fino all’1% di crescita, grazie alla ripresa europea apparentemente a portata di mano e alla spinta in arrivo dal Quantitative Easing della Bce. Oggi pero’ la situazione e’ tornata a complicarsi, non tanto – o non solo – per gli effetti immediati delle stragi di Parigi, quanto per il rallentamento registrato dell’economia internazionale e per la frenata commercio globale deleteria per l’export italiano.
Rispetto allo scorso anno, chiuso con il segno meno e un Pil negativo dello 0,4%, l’economia registrera’ comunque quest’anno una netta inversione di tendenza. E su questo tende a puntare l’attenzione, Matteo Renzi.
"Dopo tre anni il Pil quest’anno sara’ positivo e meglio delle previsioni di inizio anno. – ha tenuto a puntualizzare – Le cose finalmente iniziano a marciare". L’ottimismo sperimentato a meta’ anno sembra pero’ essersi un po’ appannato. Anche perche’, curiosamente, a registrare un’inversione sono anche i ruoli tradizionalmente rivestiti da Palazzo Chigi e Tesoro.
E’ Renzi stavolta il piu’ prudente rispetto a Pier Carlo Padoan, ancora convinto di poter raggiungere il +0,9% quest’anno e preoccupato piuttosto per quello che terrorismo e clima di sfiducia diffuso per l’Europa potranno causare nei prossimi mesi. L’anno di grande riscatto per l’Italia dovrebbe essere infatti proprio il 2016, quello in cui gettare le basi per tentare di avvicinarsi all’obiettivo di medio termine di una crescita del 2%. Se nel 2015 il governo ha approvato – o gettato le basi – per le grandi riforme, a partire dal Jobs act, ha reso strutturali gli 80 euro, ha dato una spinta con la decontribuzione e il taglio dell’Irap, nel 2016 proseguira’ con il taglio della Tasi, con i superammortamenti e probabilmente con il bonus cultura ai diciottenni.
L’idea di fondo, che qualcuno nell’esecutivo definisce "keynesiana", e’ quella di sostenere la domanda e gli investimenti, partendo dal presupposto che la spinta psicologica e’ fondamentale per i consumi e la spesa. Ma in un clima di paura e incertezza le misure programmate, che stanno peraltro costando al governo una serrata trattativa con l’Ue per ottenere le deroghe sulla flessibilita’, potrebbero non bastare. Non solo per centrare l’obiettivo di crescita dell’1,6% ma di conseguenza anche quello di riduzione del debito – la prima volta in 8 anni – e di calo del deficit. Il dialogo con l’Ue si regge tutto su quei numeri e ritoccarli, anche di poco, rischia di portare a reimpostare anche la discussione con Bruxelles. Il governo ha del resto gia’ in qualche modo ridimensionato le risorse in deficit da utilizzare nel 2016, visto che i 3,3 miliardi della clausola migranti si sono trasformati in 2 miliardi per la sicurezza. Se quelli dovessero rimanere il deficit, a stime di crescita invariate, si attesterebbe al 2,3%. Mentre se si dovessero rivedere le previsioni al ribasso di un decimo di punto rispetto all’attuale +1,6%, l’indebitamento salirebbe automaticamente al 2,4% richiesto.
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