Se quello del 4 dicembre fosse un referendum sul governo Renzi, difficilmente voteremmo un Sì convinto. Non ci piace com’è gestita la crisi delle banche, quella del Monte dei Paschi di Siena su tutte. Non ci piace un Paese che ha un debito pubblico pari al 135% del prodotto interno lordo non riesca, né voglia metter man a quell’elefante di nome spesa pubblica.
Non ci piace che l’Europa diventi l’alibi per tutto quel che non non riusciamo, né vogliamo fare. E la sparizione delle bandiere blu con le dodici stelle gialle alle spalle del premier grida vendetta, anche fosse solo una trovata elettorale di Jim Messina.
Quello del 4 dicembre, però, non è un referendum su Renzi. Ma su una revisione costituzionale chiesta a gran voce da Giorgio Napolitano ad inizio legislatura, quando un plebiscito di un Parlamento balcanizzato lo rielesse presidente della repubblica.
Vale la pena di rileggere cosa disse, il 22 aprile del 2013: «Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana».
Può piacere o meno, ma la riforma costituzionale oggi oggetto di referendum altro non è che la “soluzione praticabile” di cui parlava Napolitano. Un testo, cioè, che è scaturito da un accordo tra le due principali forze politiche italiane, Partito Democratico e Forza Italia, e che è stato discusso dalle due camere per 731 giorni, con tre letture per entrambi i rami del parlamento e sei approvazioni, necessarie per decretare il testo finale. Non è un caso che al suo primo passaggio in Senato, l’8 aprile del 2014, nessun parlamentare abbia votato contro la riforma. E che anche nel giorno del voto finale, il 21 gennaio 2016, abbiano votato a favore il 61,43% dei parlamentari. Risultato rilevante, per una riforma che cambia 47 articoli della Costituzione.
Potremmo chiederci, ora, come mai buona parte delle forze politiche italiane abbia cambiato idea e faccia campagna affinché la Riforma Costituzionale che ha votato in Parlamento sia bocciata dagli italiani. Problemi loro (e risposta relativamente semplice). Più interessante, semmai, è chiedersi perché fino a qualche mese fa fossero – grillini esclusi – tutti d’accordo. La risposta è semplice: perché la riforma tocca due questioni cruciali relative al funzionamento delle istituzioni democratiche italiane. Questioni di cui tutte le forze politiche o quasi, perlomeno quelle che sanno come funziona l’Italia, hanno contezza.
La prima riguarda il cosiddetto bicameralismo paritario, ossia con l’idea che Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, pur eletti da elettorati diversi, con sistemi diversi e funzionanti con regolamenti diversi (al senato l’astensione è equiparata a voto contrario) debbano fare le stesse identiche cose. Una forma nata come compromesso tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista che Don Giuseppe Dossetti, uno dei padri costituenti, aveva già allora definito come «garantismo eccessivo, perché ancora si era sotto l’ossessione del passaggio alla maggioranza del Partito Comunista». Un altro costituente come Costantino Mortati, uno dei più importanti costituzionalisti italiani, negli anni settanta lo definiva come un «inutile doppione». Persino uno dei più acerrimi sostenitori del No come il professor Gianfranco Pasquino, ha dichiarato in una recente intervista a La Stampa che anche lui, in linea di principio, sarebbe «favorevole alla differenziazione delle funzioni e della stessa composizione» tra Camera e Senato.
Segnale di un’istanza reale e condivisa, insomma. Cui la riforma dà la risposta scaturita dalla discussione parlamentare e dalla mediazione tra le forze in campo. Può non piacere il nuovo Senato delle autonomie, si può non essere d’accordo con le materie di cui dovrà occuparsi o coi criteri di nomina dei nuovi senatori, ma rimane il fatto che, se la riforma passerà, le due camere, finalmente, si occuperanno di cose diverse, superando un assetto istituzionale mal sopportato per quasi ottant’anni, che non ha eguali nel mondo occidentali.
La seconda questione cruciale è quella che riguarda il rapporto tra Stato e Regioni. Quello che, dopo la riforma del Titolo V della costituzione, nel 2001, aveva assegnato a queste ultime un mare di competenze. Eravamo, allora, in piena sbornia federalista. E anche le forze progressiste, primi fra tutti i Democratici di Sinistra, si erano persuasi che avesse ragione la Lega Nord. Che spostare poteri e responsabilità dal centro alla periferia avrebbe fatto aumentare l’efficienza e diminuire i costi.
Senza possibilità di smentita, quella riforma è stato uno dei fiaschi più clamorosi della Repubblica Italiana. Qualche numero: la spesa sanitaria è passata dai 75 miliardi di euro del 2001 agli oltre 110 attuali. E dodici sanità regionali, dal 2001 a oggi, sono finite in bancarotta e commissariate. Il turismo è finito nelle mani degli uffici e delle agenzie regionali, così che c’è più Molise che Italia, nella nostra promozione estera. Non bastasse, i conflitti d’attribuzione tra Stato e Regioni sono aumentati esponenzialmente. Riportare al centro un bel po’ di competenze, dai trasporti all’energia, dalle politiche attive del lavoro al commercio con l’estero sembra essere una buona idea, insomma. La contrarietà di molti governatori regionali, soprattutto al Sud, non fa che rafforzare questa convinzione.
Nulla è risolutivo, sia chiaro. E probabilmente non basterà un Sì, questo Sì, per cambiare l’Italia. Ma uscire da uno dei bicameralismi più assurdi e malfatti dell’Occidente e da un regionalismo ipertrofico e sprecone, senza alcun senso d’essere, è un buon passo avanti, sufficiente per auspicare che la riforma passi. Ci sono altri modi, molto meno autolesionisti, per mandare a casa Renzi. Un programma politico alternativo e un candidato sufficientemente credibile per realizzarlo potrebbero essere una buona idea, tanto per cominciare.
Francesco Cancellato, linkiesta.it
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