Le ragioni per il Sì. Oggi più che mai, anche grazie ai dibattiti, vedo l’urgenza della riforma della seconda parte della Costituzione. Perché?
La conferma della circoscrizione Estero
Il confronto delle idee è sempre positivo: è il mantra di questi giorni di dibattiti e analisi referendarie. Eppure i toni, in alcuni momenti, sono stati alti, talvolta demagogici e poco rispettosi dell’esigenza primaria di informare. Da più parti è stata rilevata l’assenza dal nuovo Senato degli eletti all’estero. Coincidenza vuole che a rilevarla siano state forze politiche che, durante il dibattito parlamentare, durato due anni, hanno presentato emendamenti soppressivi della circoscrizione Estero. Oggi ogni argomento è buono per opporsi al Sì, domani magari tutti i mezzi saranno buoni per cancellare la circoscrizione Estero.
Eppure dovrebbe apparire chiaro a tutti che il nuovo “Senato dei territori” afferma un principio di “vicinanza oggettiva” alle persone. Un’esigenza di dialogo costante con i cittadini per garantire che, sia nel procedimento bicamerale che in quello monocamerale, si avverta il contributo che arriva dai territori, dalla gente che risente quotidianamente le scelte fatte dal Parlamento. La circoscrizione Estero, invece, è sorretta da un’altra logica perché si fonda su un principio di rappresentanza complessiva dei cittadini italiani nel mondo.
La riforma costituzionale che si propone è coerente con questa esigenza di rappresentanza generale. E’ positivo aver mantenuto inalterato il principio della circoscrizione Estero con 12 deputati eletti direttamente nella Camera dei Deputati, dove si forma il Governo con il voto di fiducia e dove si votano le leggi di bilancio.
Le questioni di legittimità costituzionale
Altro importante aspetto sollevato dagli oppositori al Sì riguarda la legittimità costituzionale. Eppure, il processo di revisione costituzionale, durato due anni, ha seguito e rispettato l’art. 138 della Carta, che detta le procedure da seguire per riformare la Costituzione. Sulla legittimità costituzionale, dunque, non possono esservi dubbi. Chi ne contesta la legittimità pensa ad una Costituzione sostanzialmente immutabile, marmorea.
Un ulteriore elemento di riflessione ci viene da chi evoca i nomi di costituzionalisti che si oppongono al Sì. Eppure, il fronte del Sì conta sul sostegno di 184 tra costituzionalisti, giuristi e docenti universitari, tra cui Stefano Ceccanti, Francesco Clementi, Salvatore Vassallo, Roberto Bin, Stefano Pizzorno, Angelo Panebianco, Franco Bassanini e Tiziano Treu. Tutti hanno firmato l’appello per il Sì.
Un altro appunto è legato alla legittimità politica di un disegno di legge presentato dal Governo. Perché ciò sia possibile e addirittura opportuno ci sono ragioni costituzionali e di ordine pratico. In questo caso un testo unificato poteva nascere solo mettendo insieme oltre 50 diverse proposte di riforma depositate al Senato, fissando elementi solidi per una riforma condivisa e facendo camminare speditamente il progetto. Il Governo ha accettato questa sfida ed è riuscito a raggiungere questo obiettivo.
Gli appelli presidenziali e i precedenti
Questa iniziativa, poi, – nessuno lo dimentichi – deriva dai voti di fiducia sia al governo Letta che al governo Renzi, quando sono stati presi impegni programmatici di riforma, considerati addirittura dirimenti per la vita degli stessi esecutivi. Abbiamo vissuto in diretta, inoltre, dopo le elezioni politiche del 2013, la nomina di due gruppi di esperti, i “saggi”, da parte del Presidente uscente Napolitano. Ancora non si spengono le parole di Napolitano nel discorso del 22 aprile 2013, in occasione della sua rielezione a Presidente della Repubblica, mirate ad un forte richiamo all’impegno sulla riforma costituzionale. Un richiamo alle riforme ribadito dallo stesso Mattarella nel discorso di insediamento come nuovo Presidente della Repubblica.
D’altro canto, non mancano i precedenti sul piano degli interventi governativi sulle riforme: il 18 marzo 1999 il Presidente del Consiglio dei Ministri D’Alema, già Presidente della Commissione bicamerale, presentò al Parlamento una nuova proposta di legge costituzionale dal titolo: “Ordinamento federale della Repubblica”, che poi sfociò nella legge costituzionale n. 3 del 2001. La legge costituzionale n. 1 del 2003, di modifica dell’art. 51 Cost., fu approvata sulla base di una iniziativa legislativa del Governo Berlusconi. La riforma costituzionale approvata dal Parlamento nel 2005 e respinta nel referendum del 2006 intervenne sulla base di una proposta di legge governativa del Governo Berlusconi. La legge costituzionale n. 1 del 2012, sulla introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, si basò su di una iniziativa legislativa presentata dal Governo Berlusconi.
La strana coppia D’Alema-Berlusconi, insomma, si ripresenta spesso nella storia della Repubblica.
Quindi legittimità costituzionale e piena legittimità politica del Governo.
Il Parlamento della XVII legislatura, a sua volta, è stato pienamente coinvolto con sei letture (tre alla Camera e tre al Senato) e sei approvazioni. Siamo oggi, così, di fronte ad una legge dello Stato compiuta in tutti i suoi passaggi, che ha bisogno di un voto popolare solo per essere promulgata.
Interessante notare che gli oppositori del Sì non sono riusciti a raggiungere le 500mila firme necessarie per il referendum, mentre i sostenitori del Sì, per mantenere l’impegno politico assunto con il popolo italiano, hanno raccolto sia le firme dei parlamentari che le 600mila firme utili per il referendum. Questa consultazione elettorale, insomma, si svolge oggi grazie al Sì.
La macchina propagandistica degli oppositori al Sì si nutre di tentativi di delegittimazione partendo dalla legge elettorale su cui si è pronunciata la Corte Costituzionale. Tacendo il fatto che la sentenza non solo garantisce la piena continuità del Parlamento ma dichiara incostituzionali solo determinati aspetti della legge elettorale. Questo Parlamento, in sostanza, ha tutte le carte in regola per andare avanti nell’azione riformatrice.
Il superamento del bicameralismo paritario
Il vero merito della riforma è quello di aver provveduto al superamento dell’anacronistico bicameralismo paritario e perfetto, ovvero simmetrico, riducendo le funzioni del Senato secondo un modello di rappresentanza legato alle istituzioni territoriali. Si tratta di una scelta che prende come punto di riferimento i sistemi di Stati, sia membri dell’Unione europea che non. Un esempio ricorrente è quello dell’Australia, dove il superamento del bicameralismo perfetto è in essere da moltissimi anni.
Il superamento del bicameralismo perfetto e paritario rafforza il rapporto fiduciario fra Governo e Parlamento, che rimarrà in capo alla sola Camera dei deputati. I procedimenti legislativi diventano due:
Bicamerale: Camera e Senato approvano i testi su basi paritarie solo per il 5% circa dei provvedimenti, tra cui le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, le leggi che disciplinano i profili fondamentali di Comuni e Città metropolitane, la partecipazione all’Unione europea, alcune leggi che tratteggiano le caratteristiche fondamentali dei rapporti tra Stato e Regioni
Monocamerale: prevalenza della Camera con possibilità di intervento del Senato su tutte le leggi. La Camera ha l’ultima parola e il provvedimento si chiude in 10 giorni o massimo 40 (oggi siamo ad una media di 274!).
Il risparmio sui costi delle istituzioni
Il nuovo Senato della Repubblica è composto da 74 Consiglieri regionali e 21 Sindaci: complessivamente novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali, ai quali si aggiungono cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica. Il testo specifica che i senatori dovranno essere eletti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”.
Nell’accordo politico interno al PD, conseguito da Gianni Cuperlo dopo una fase di discussione con la maggioranza, oltre alle modifiche alla legge elettorale (Italicum), è stata trovata un’intesa anche sulle modalità di indicazione dei consiglieri regionali. Quindi al momento del rinnovo dei Consigli regionali, con il loro voto, i cittadini avranno non solo la responsabilità di eleggere i propri rappresentanti locali, ma anche di indicare chi tra questi debba rappresentare il proprio territorio a livello nazionale. Senza alcun compenso aggiuntivo.
Gli effetti pratici sono: riduzione del numero di Senatori da 315 a 100; risparmio diretto di 315 indennità, pari a 50 milioni di euro ogni anno. Vi sono, inoltre, il limite alle remunerazioni dei Consiglieri regionali, l’eliminazione dei rimborsi elettorali ai Gruppi consiliari e la definizione di costi standard per le Regioni. Un ulteriore risparmio viene dall’abolizione del CNEL.
I rapporti tra Stato e Regioni
La riforma chiarirà e semplificherà il rapporto tra Stato e Regioni. Con questa riforma costituzionale torna la potestà legislativa esclusiva dello Stato su determinate materie. L’art. 117, così come era stato riformulato dalla legge Cost. n. 3 del 2001, è stato ampiamente riscritto, sia nella logica di fondo che lo ispirava, sia nelle testuali attribuzioni di competenze. Come è stato osservato da molti studiosi di diritto costituzionale, compresi alcuni oppositori a tale riforma, si tratta di una riscrittura che ha seguito in larghissima misura le indicazioni date in questi quindici anni dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Essa, infatti, ha ampiamente limato la teoricamente estesa sfera di materie di competenza regionale, reintroducendo sostanzialmente una clausola di tutela dell’interesse nazionale. Con l’eliminazione delle cosiddette “competenze concorrenti”, ogni livello di governo avrà le proprie funzioni legislative. Si eviterà finalmente la confusione e la conflittualità tra Stato e Regioni che ha ingolfato negli ultimi 15 anni il lavoro della Corte costituzionale.
Una democrazia partecipativa
La democrazia non si riduce solo al momento del voto, ma è un insieme di strumenti nelle mani dei cittadini per esprimere idee, proposte e bisogni. Con la riforma, la democrazia italiana diverrà autenticamente partecipativa: il Parlamento avrà l’obbligo di discutere e deliberare sui disegni di legge di iniziativa popolare proposti da 150mila elettori; saranno introdotti i referendum propositivi e d’indirizzo; per i referendum abrogativi rimane invariato il quorum delle cinquecentomila firme ma si abbassa se richiesti da ottocentomila elettori: non sarà più necessario il superamento del 50 per cento degli aventi diritto, ma sarà sufficiente la metà più uno dei votanti alle precedenti elezioni politiche.
Il Presidente della Repubblica continuerà ad essere eletto da entrambi i rami del Parlamento, riuniti in “seduta comune”. La Costituzione riformata, come quella attuale, prevede che per le prime tre votazioni il Presidente debba essere eletto dai 2/3 del Parlamento in seduta comune – dunque 487 voti. La riforma prevede invece che dal quarto al sesto scrutinio il quorum necessario sia i 3/5 dei voti degli aventi diritto – 438 voti -, dal settimo scrutinio in poi i 3/5 dei votanti effettivi e non dei componenti. La riforma, come si vede, aumenta il quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica.
Nonostante la presenza femminile nelle istituzioni nazionali ed europee sia progressivamente aumentata, la quota delle donne in politica nel nostro Paese deve ancora essere rafforzata. Oggi, nel nostro Parlamento, le donne rappresentano circa un terzo dei componenti delle due Assemblee: il 31%. Un dato superiore al 22% della precedente legislatura, ma comunque inferiore ad altre democrazie occidentali. Le modifiche della riforma costituzionale in materia di parità di genere, perseguono questo obiettivo, nello specifico all’art. 55 (“Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza) e all’art. 122, nel quale si dice che sarà la legislazione statale a definire i principi fondamentali per garantire, anche a livello regionale, l’equilibrio di rappresentanza di genere.
Una novità assoluta della riforma costituzionale è stata l’introduzione di un esplicito riferimento testuale, a livello costituzionale, alla tutela delle opposizioni all’interno delle aule parlamentari. Lo Statuto delle opposizioni per un verso trova giustificazione nell’esigenza di conferire dignità costituzionale alla tutela delle opposizioni in Parlamento; per l’altro, nella necessità di individuare il fondamento positivo di un contrappeso politico-istituzionale al ruolo del Governo in Parlamento. Un ruolo rafforzato dalla riforma tanto nelle dinamiche del rapporto fiduciario, del quale rimane titolare la sola Camera dei deputati, quanto nell’ambito del processo legislativo. Su quest’ultimo versante, infatti, la riforma segna il passaggio dal bicameralismo paritario ad un sostanziale «bicameralismo asimmetrico a prevalenza della Camera», in cui spetterà a questa pronunciarsi in via definitiva sulla maggior parte delle tipologie di leggi, per le quali si prevedono procedimenti legislativi differenziati.
Il Governo, inoltre, vedrà rafforzata, attraverso il nuovo istituto del cd. “voto a data certa”, la sua capacità di indurre la futura Camera dei deputati a conformare la gran parte della sua attività legislativa al programma di governo.
La previsione, inoltre, di una specifica differenziazione tra diritti delle minoranze e statuto delle opposizioni, conseguente, nella ratio della riforma, alla diversa legittimazione dei due rami del Parlamento è in sostanziale continuità rispetto ad alcuni recenti tentativi di revisione della Parte seconda della Costituzione esperiti nell’ultimo ventennio.
*deputato Pd eletto all’estero, residente in Australia
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