Il reddito di cittadinanza, fiore all’occhiello dei programmi del M5S, proprio per questa sua forte caratterizzazione politica è stato da sempre oggetto di grandi polemiche. Vediamo di affrontare il discorso con meno ipocrisie e più concretezza, cominciando a ricordare che da diversi anni in Italia funzionavano programmi simili come il REI (Reddito di Inclusione) e soprattutto il SIA (sostegno per l’inclusione attiva) che avevano scopi analoghi, ovvero soprattutto di tamponamento sociale.
Chi ha lavorato come “navigator” sa benissimo che – al di là delle sparate propagandistiche o dei programmi auto-celebrativi di “abolizione della povertà” – c’è la desolante realtà di uno strato sociale che in parte lavora “in nero” e si adatta al suo ruolo furbescamente o per necessità, oppure che semplicemente non ha voglia o (soprattutto) non può lavorare.
La “voglia” è spesso carente per abitudini, ignoranza, provenienza famigliare, mancanza di spirito competitivo ma anche per pessimismo, delusioni passate con più o meno gravi carenze psicologiche e problemi di tossicodipendenza, ex detenuti, alcolisti ecc.
Vi sono poi spesso anche problemi fisici, perché una persona non ha magari riconosciuta una percentuale di invalidità, ma se ha effettivi limiti fisici non può svolgere concretamente mansioni manuali, ricordando che la gran parte dei percettori del RDC non riceve i teorici massimali di legge (ovvero oltre i mille euro per reddito famigliare) ma una miriade di piccole somme mensili insufficienti per campare, ma sufficienti per “arrotondare”, senza però risolvere il problema lavorativo.
Non credo siano quindi molte le persone che abbiano effettivamente rinunciato a un lavoro stabile (e correttamente pagato) per percepire il reddito: le (poche) offerte di lavoro sono comunque di solito per mansioni manuali o specializzate, cui non può accedere una manovalanza parzialmente invalida o anziana o che per qualche motivo non è all’altezza di un minimo di istruzione e autonomia lavorativa.
Il Reddito di cittadinanza è stato insomma una mancia, non una soluzione, ma d’altronde o si decide di ghettizzare una parte della popolazione che – soprattutto nel sud e nelle periferie urbane – non ha possibilità concrete di lavoro oppure (come è avvenuto) le si passa un piccolo mensile che permetta di tacitarla e arrotondare il minimo vitale. Ovvio che i grillini, assumendosene il merito “in proprio”, lo abbiano poi furbescamente trasformato in uno scambio elettorale.
I “navigator” non hanno quindi trovato posti di lavoro (né erano in grado di trovarli), ma – almeno quelli che hanno lavorato con criterio – hanno piuttosto spiegato ai “convocati” come avrebbero potuto “tentare” una ricerca di lavoro, stendendo per loro almeno un curriculum e fornendo informazioni generali, in pratica poco di più.
Il fatto è che lavori veri, stabilizzanti e ben pagati, è difficili trovarli perché richiedono qualifiche, specializzazioni, mobilità, volontà di impegno nel tempo, ovvero caratteristiche che mancano alla gran parte dei richiedenti il sussidio, che in molti casi risultano poco al di sopra del livello di alfabetizzazione.
Senza dimenticare la grande platea degli immigrati, le cui “domande” di reddito sono state presentate (ed ottenute) per tramite dei patronati, sovente non dicendo la verità e questo è un aspetto che è rimasto colpevolmente in ombra.
Gente che ha auto-dichiarato di essere in Italia da un decennio (quando la circostanza – indispensabile per ottenere il sussidio – era del tutto falsa) ma d’altronde tutti i dati forniti si basavano sempre su una “autodichiarazione” spesso di dubbia comprensione per l’interessato, talvolta neppure in grado di leggere in italiano. Immaginatevi come potevano essere compresi dei quesiti stesi in burocratese!
“Navigator” diventati più assistenti sociali, dunque, che veri tecnici del lavoro e comunque all’interno di un riferimento normativo contraddittorio e con situazioni regionali assurde, basti pensare che ad oggi, a “fine legge”, i concorsi per potenziare i Centri per l’Impiego di oltre 10.000 unità in molte Regioni non sono ancora terminati.
Ogni Regione è andata per conto suo, sostanzialmente in un caos generale, mancando direttive unitarie e tempi obbligatori. Il lavoro d’altronde è – come la sanità – materia di competenza prevalentemente regionale e quindi ci si trova di fronte a scenari, meccanismi e organici spesso molto differenti da un territorio all’altro; tutto questo con il paradosso che norme nazionali come il RDC finiscono con l’essere gestite in modo uniforme dall’INPS a livello di erogazione del sussidio, ma in modo del tutto differente dal lato delle politiche attive del lavoro.
Complessivamente, quindi, una legge fallimentare in termini di recupero di veri nuovi posti di lavoro, ma utile e a volte indispensabile come provvedimento-tampone ai fini sociali.