Adesso che il M5S ha assunto le dimensioni parlamentari che gli consentiranno di governare (e me lo auguro davvero, anche perché il contrario sarebbe un gesto grave e antidemocratico) ci interroghiamo sul reddito di cittadinanza. Purtroppo si fa “all’italiana”, non affrontando la questione (da dove scaturisce) e non verificandone gli effetti (sociali ed economici), ma si prende la proposta, da parte di molti, come un “dogma di posizione”.
C’è chi (per contrapposizione) inventa le file di “meridionali” in ipotetici uffici e chi spera che sia dato a pioggia e in misura consistente.
Certamente si tratta di una forma di assistenza che ha lo scopo di consentire un livello di vita più degna, ma (a mio modesto avviso) se viene riconosciuto al di fuori dei casi di oggettiva impossibilità al lavoro (perché la questione è questa) rischia di essere in contrasto con il principio costituzionale che riconosce questo – il lavoro – come fondamento del sistema sociale.
Peraltro, anche la definizione di “reddito” ha la sua origine in qualcosa che presuppone una “condizione” che non può essere la sola esistenza in vita.
Penso che il miglior reddito sia quello di sentirsi appartenenti a un sistema sociale che assicuri vera inclusione, servizi adeguati e diffusi e il diritto di sentirsi attivi con rapporti di lavoro dignitosi. Forse sarebbe opportuno legare il cosiddetto reddito di cittadinanza a prestazioni sociali che esprimano anche “obblighi di cittadinanza”. Altrimenti il rischio è alto. E può capitare di produrre ampie fasce di persone che preferiscono restare ai margini del mondo produttivo, vivendo di quella forma di assistenza e rinunciando al lavoro.