Stefano Fassina, deputato di Leu, è intervenuto su Radio Cusano Campus e sulla situazione nel PD dopo le dimissioni di Zingaretti ha detto: “Quello che pensavo del Pd l’ho praticato subito dopo l’arrivo di Renzi, dimettendomi da viceministro ed uscendo dal Pd quanto aveva oltre il 40%. Era evidente che quel partito non aveva più come obiettivo la rappresentanza di quegli interessi di popolo per i quali la sinistra è nata. Tuttavia il problema non è stato l’arrivo dei democristiani, il problema sta anche negli eredi della tradizione comunista, in particolare Veltroni”.
“Il Pd nasce con un impianto blairiano, quando il blairismo stava già finendo. E’ riduttivo prendersela con l’arrivo degli ex democristiani. Si sono incontrati due filoni politico-culturali che erano largamente spompati e non hanno prodotto una sintesi capace di innovazione e di misurarsi con la sfida. E’ venuto fuori un insieme che portava in Italia un pensiero completamente subalterno al liberismo che è stato utile solo per galleggiare e rimanere al governo. Adesso potrebbe esserci una svolta con il messaggio dato da Zingaretti, ma non è detto che sia così, potrebbe anche rimanere un partito del 15-20% che rappresenta fasce benestanti e che in una prospettiva centrista si mette insieme a Italia viva, a Calenda, alla Lega che ha riscoperto la sua anima europeista e magari fanno insieme un grande centro. Non è affatto detto che il Pd recepisca il messaggio delle dimissioni di Zingaretti e decida di aprire una riflessione interna ed uscire dal recinto. Il rapporto con le periferie non è un problema che riguarda soltanto il PD, ma tutta la sinistra storica europea ed è dipeso dal fatto che le forze socialdemocratiche, socialiste, laburiste hanno assunto dopo l’89 quell’impianto liberista che vuol dire difesa degli interessi più forti. Il governo Draghi è un acceleratore perché fa cadere alcuni alibi. Per un lungo periodo anche il PD si è dato un’identità riflessa in quanto contrapposta ai sovranisti, agli antieuropeisti, ai fascisti. Il fatto di legittimare la Lega come alleato di governo, determina una messa a nudo della propria carente identità”.
Sulla scelta di Draghi di avvalersi della società di consulenza McKinsey per il Recovery Plan. “McKinsey è una delle più grandi società globali di consulenza che è sul campo da tanti anni ed è molto disponibile nei confronti di qualunque regime, l’importante è che paghi per la consulenza. Ovviamente, come tutte le società di consulenza, non è neutra, ha un’agenda liberista. Il Mef ha replicato alle nostre critiche sulla consulenza ridimensionandola come un semplice supporto tecnico per il Recovery Plan. Abbiamo bisogno di più chiarimenti. E’ stato crocifisso Conte per le task force, sarebbe davvero surreale se i tecnici chiamassero altri tecnici. Noi in Parlamento non sappiamo cosa sta succedendo, non sappiamo quale sia lo stato dell’arte sul Recovery Plan, oggi abbiamo l’audizione del ministro Franco e chiederemo se il governo intende escludere il Parlamento ed affidarsi alle società di consulenza. Dietro questa vicenda della consulenza c’è la questione fondamentale della funzione del Parlamento. Invito Draghi a fare attenzione perché un governo del presidente non supera la Costituzione, il Parlamento deve rimanere centrale per quanto riguarda le linee guida e gli indirizzi. Attenzione a scavalcare il Parlamento. Avremmo preferito che Draghi spiegasse qual è il percorso per arrivare alla definizione del Recovery Plan e il parlamento in quale misura è coinvolto. Vedo segnali preoccupanti che riguardano il governo e l’atteggiamento passivo di partiti che hanno dato una sorta di delega al governo. Uscito di scena Conte, diventa ancora più verticale il rapporto dell’esecutivo con il mondo fuori dai palazzi”.