Domenica prossima la Tunisia è chiamata alla prima manifestazione di voto democratico. Un’apertura che sino al 14 gennaio scorso, giorno della fuga del dittatore Ben Ali, sembrava impossibile, e che ha visto la gioventù tunisina protagonista di quella rivoluzione nei suoi momenti più tragici. Non bisogna dimenticare, infatti, che dal 18 dicembre 2010, giorno in cui il giovane Mohamed Bouazizi si è dato fuoco davanti all’edificio del governo di Sidi Bouzid, le vittime cadute della Rivoluzione sono state 467, la stragrande maggioranza delle quali appartenente alla più bella gioventù tunisina.
Alla vigilia del voto di domenica cosa è rimasto di quel moto popolare indipendente che ha generato la Rivoluzione alla ricerca di “Libertà”, “Democrazia” e “Uguaglianza”? I dati più significativi ottenuti dall’evoluzione del quadro politico interno sono: 111 Partiti ufficialmente riconosciuti, di cui solo 81 sono stati ammessi alle elezioni; più di 1200 liste elettorali per un totale di oltre 10500 candidati. Lo scopo della consultazione elettorale è quello di generare un “Parlamento Costituente” di cui, per inciso, sui 217 seggi del nuovo Parlamento, 18 sono riservati al più di un milione di tunisini emigrati. Il Parlamento Costituente nominerà anche un Governo che resterà in carica sino all’avvento della nuova Costituzione.
Apparentemente sembrerebbe un’indubbia lezione di Democrazia, magistralmente condotta dall’ottantaquattrenne Premier Beji Caid Essebsi. Per contro, dai valori proposti dal popolo che ha fatto la Rivoluzione, la Tunisia è passata, dopo decenni di governo autocratico e elezioni contraffatte, in una inedita esperienza democratica caratterizzata da una vera e propria giungla elettorale di difficile interpretazione. Tutto questo ha causato una registrazione alle liste degli “aventi diritto al voto”, prevista obbligatoria dall’attuale costituzione, di poco meno di 3,9 milioni di Tunisini su un totale di 7,5 milioni di potenziali elettori (circa il 55%). A questo dato, già di per sè indicativo di come ha reagito il popolo tunisino alle istanze politiche, va ad aggiungersi un buon 40% dei votanti che al momento non ha ancora deciso per chi votare e se voterà. Su questa base di confusione generalizzata va ad aggiungersi l’obiettivo politico delle consultazioni che, a dispetto dei tanto applauditi valori di fondo che hanno caratterizzato il periodo della rivoluzione, è stato completamente trasformato in competizione sul ruolo che la “religione” avrà sulla vita pubblica del Paese. In questa fase di apertura alla Democrazia è emersa, infatti, la statura politica di Rachid Ghannuchi, l’incontrastato Leader di El Nadah.
La Costituzione del 1959 definiva la Tunisia uno “Stato Musulmano”, ma limitava il ruolo della religione nella sfera politica e giuridica. Sarebbe bastato quindi indirizzare la nuova fase costituente sulla scelta tra una Repubblica Presidenziale o una Repubblica Parlamentare. Rachid Ghannuchi, contrariamente al buon senso comune, nonché alle scelte di politica economica e di sviluppo che sono giudicate prioritarie per combattere la povertà e la disoccupazione che incalzano sempre più sul Paese, è riuscito in breve tempo a imporre l’argomento religioso quale determinante per la scelta del nuovo parlamento, facendo del confronto tra i partiti laici e quelli islamisti argomento privilegiato della dialettica elettorale.
In questo momento vi è una quarantina di partiti di area Sinistra Liberale, che purtroppo, pur avendo programmi molto simili, non sono riusciti a formare raggruppamenti o insieme di coalizione. Inoltre, El Nahda, sebbene abbia manifestato un approccio altrettanto sospettoso nei confronti delle forze laiche, è stato sempre attento a mettere in evidenza il proprio carattere di partito moderato di ispirazione islamica, aperto all’economia del libero mercato seppur temperato da un principio di solidarietà sociale, e agli accordi internazionali fino adesso presi. Qualche dubbio comunque permane su come, in caso di vittoria di El Nahda anche parziale alle elezioni, la Tunisia si comporterà nei confronti della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, firmata all’ONU ma ancora non ratificata dal parlamento Tunisino, in particolare per quanto recita l’art. 15 sulla parità di diritti tra uomo e donna. Così come, sempre sul diritto di Famiglia, la Tunisia non ha ancora firmato la convenzione dell’Aia sulla «sottrazione di minori», mentre per contro ha aderito alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti dei fanciulli. Argomenti che non sono stati minimamente toccati da M. Ghannouchi, ma che offuscano la visione della Tunisia a livello internazionale.
Le paure dei laici sono accresciute a causa dei recenti incidenti che hanno coinvolto gruppi salafiti (una minima percentuale nel Paese, la cui rappresentanza non è stata ammessa alle elezioni), i quali praticano una versione ultraconservatrice dell’Islam. Ma questi episodi di violenza non fanno altro che confermare l’attualità della “nouvelle démocratie tunisienne”, se paragonata per esempio alle violenze dei black blocs a Roma.
Nella sostanza, comunque andranno le elezioni di domenica prossima, il futuro della Tunisia è tutto da scoprire. L’attuale stato di confusione politica è solo l’inizio di un percorso che, ne sono convinto, è comunque prodromo di positivi e democratici sviluppi che la Tunisia stessa dovrà maturare nei prossimi anni.
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