L’Hotel Elvezia è una struttura alberghiera importante della città di Pesaro, per la sua storia e la sua collocazione cruciale: all’incrocio fra Viale della Vittoria e Viale Fiume, cioè all’altezza del “Curvone”, appena al di fuori dell’antico perimetro delle Mura roveresche (oggi del centro storico) e a due passi dal mare. Negli anni ’80 il suo buon ristorante era frequentato anche da chi non era cliente dell’hotel.
La svolta, nella storia dell’Elvezia, si è avuta all’inizio della primavera del 2020, grazie alla gestione di Andrea Verde.
All’improvviso, col lockdown, chiusero tutti i centri di accoglienza e le strutture ricettive, e tante persone si ritrovarono senza un rifugio, sia a Pesaro che in provincia. L’hotel Elvezia decise di restare aperto, ed ospitò tutte le persone che ne avevano bisogno.
“Per oltre sei mesi – ricorda Andrea Verde – l’hotel Elvezia fornì accoglienza e ristoro ad oltre settanta persone altrimenti condannate a dormire per strada. La cosa più dura fu l’osservanza delle norme igienico-sanitarie. Nessuno all’interno della struttura contrasse il Covid. Un’umanità varia ha trovato alloggio qui, composta da italiani emarginati, extra-comunitari con i documenti in regola usciti dai programmi Sprar in cerca di un avvenire migliore”.
Non dimentichiamo che anche i nostri nonni e padri, pesaresi e non, 80 anni fa, si sono trovati in situazioni analoghe, quando molte case erano distrutte, così come i ponti, la ferrovia, le fabbriche, le strutture portuali, ed avrebbero molto gradito l’ospitalità generosa di una struttura come l’Elvezia per superare la propria condizione di estrema, momentanea, necessità. Dice ancora Andrea Verde: “Da noi si intrecciano storie e percorsi di persone tra le più differenti: ragazzi africani che hanno fatto una lunga traversata passando dai campi di concentramento libici e vedendo annegare in mare molti loro amici, italiani che si ritrovano senza un tetto e molte volte senza speranza, magrebini, albanesi, moldavi e rumeni. Tutti animati da una grande voglia di riscatto e desiderosi di costruirsi un avvenire migliore.
I ragazzi africani lavorano, si pagano la propria retta ed aiutano le loro famiglie in Africa, così come facevano gli immigrati italiani negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta. Lavorano, quando rientrano pregano, cenano e vanno a dormire. Molti di loro praticano sport (per lo più calcio). Usano la bicicletta o il monopattino come mezzo di trasporto. Molti lavorano regolarmente in importanti aziende pesaresi, e contribuiscono in maniera determinante alla carenza di manodopera. Si fermano da noi diversi mesi finché non sono in grado, insieme ad altri loro amici, di affittare un appartamento”.
Quello dell’Elvezia è un modello di convivenza possibile di incontro di culture e modi di vivere, grazie anche alla presenza nell’hotel di italiani che – come tanti oggi – hanno problemi di alloggio a causa del caro affitti, della richiesta, da parte dei proprietari, di garanzie difficili da fornire e dell’assenza di una politica di alloggi popolari. Proprio la politica dovrebbe da un lato venire incontro a queste esigenze, e dall’altro favorire l’integrazione di chi arriva da noi, rispettando le tradizioni e il credo religioso di ciascuno ma al contempo promuovendo gli ideali fondamentali della cultura occidentale: la democrazia, la libertà individuale, la tolleranza, la parità di diritti e doveri fra i cittadini e fra i generi, la ferma, consapevole condanna di forme di barbarie come le mutilazioni genitali femminili e la persecuzione delle donne libere e dei gay, purtroppo ancora diffuse in molte regione dell’Africa sub-sahariana, e del terrorismo islamista.
Come ha reagito la città all’esperimento coraggioso dell’Elvezia? Da un lato – e da più parti- esprimendo solidarietà, comprensione, vicinanza. Ma dall’altro qualcuno ha risposto in modo isterico e ottuso, lamentandosi per la presenza di volti e corpi “strani e sconosciuti” nei dintorni dell’hotel e soprattutto delle proprie abitazioni limitrofe. Il percorso per una buona integrazione è lungo e difficile. Andrea Verde dice di ispirarsi al modello francese che prevede l’integrazione per assimilazione dei valori repubblicani e cita spesso un aneddoto legato alla vittoria della nazionale francese ai mondiali di calcio del 1998. “Quell’anno ero a Parigi e la Francia multiculturale si unì intorno ai campioni del mondo Zidane, Karembeau, Thuram, Barthez, Deschamps. Era la Francia blanc-black-beurs (bianchi, neri, arabi) in quel momento unita per celebrare la vittoria sportiva. Lo sport è sicuramente un mezzo molto efficace per promuovere l’integrazione e favorire il superamento di steccati e barriere”
La condizione di accoglienza e convivenza pacifica dell’hotel Elvezia andrebbe portata ad esempio, incoraggiata e sostenuta da tutti, a mio modo di vedere.
Pierpaolo Loffreda
docente Accademia di Belle Arti
PIERPAOLO LOFFREDA è nato nel 1959 a Pesaro, dove vive e lavora prevalentemente. Si è laureato in Lettere a Bologna con 110 e lode nel 1985. Giornalista free lance, critico cinematografico e, in passato, consulente di diverse Amministrazioni pubbliche (fra le quali i Comuni di Pesaro, Senigallia, Cagli, Gabicce Mare, Saltara, Ravenna, la Regione Marche, la Provincia di Pesaro e Urbino, la Repubblica di San Marino, L’Irrsae delle Marche). Collabora con “Cineforum” dal 1988 e con altre testate, e cura stabilmente, dal 1982, rassegne e proiezioni di film d’alta qualità, seminari di studio e corsi di cultura cinematografica per le scuole e per il pubblico. Ha collaborato in passato con “Il Manifesto” (dal 1979 al 1988), “Corriere Adriatico” (dal 1988 al 2001), “Frigi-daire”, “Il mucchio selvaggio”, “VivilCinema”, “Il Titolo”, “Umus”, “Lengua”, “Marka”, “Il Foglio”, “San Marino RTV”. Nel 2012 è uscito il suo libro di narrativa “Le notti e il tempo”. Ha lavorato come aiuto regista ai film documentari Esame di maturità e Mostar. storia della città divisa, e come co-soggestista, co-sceneggiatore e co-produttore al film documentario Mostar ieri, oggi, domani (tutti diretti da Predrag Delibasic). Ha curato diversi volumi, dedicati, fra l’altro, a Joao César Monteiro, a Otar Iosseliani, a Wes Anderson, al cinema di Totò, al cinema italiano degli anni ’60, alla new wave del cinema newyorkese degli anni 80, al mito de lla Regina di Saba e alle popolazioni indigene del sud-ovest dell’Etiopia. È dirigente nazionale della Federazione Italiana Cineforum (dal 1986), e, dal 2000, è fra i responsabili della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, di cui, dal 2001 al 2003, ha diretto la Rassegna Internazionale Retrospettiva. È docente di ruolo di Teoria e metodo dei mass media, di Teoria e analisi del cinema e dell’audiovisivo e di storia del cinema e del video all’Accademia di Belle Arti di Urbino (dove lavora dal 2002). Nella stessa Accademia è Presidente del Corso di Nuove Tecnologie dell’Arte. Ha girato liberamente per mezzo mondo, e trascorre molto tempo in Etiopia.