Papa Francesco ha deciso di annullare il “motu proprio” del suo predecessore, Papa Benedetto XVI. La messa in latino torna ad essere celebrata solo dietro autorizzazione dei vescovi diocesani. Questa decisione è stata presa perché, per il Papa argentino, la messa in latino sarebbe stata usata in modo “distorto”. In altre parole, secondo chi sostiene questa decisione del Pontefice, chi dice messa in latino potrebbe farlo per rompere la comunione con la Santa Sede e provocare degli scismi.
Ora, una cosa deve essere detta: sarebbe bastato mantenere l’edizione del Messale tridentino del 1962, quello voluto da Papa Giovanni XXIII e dal quale fu espunta la controversa locuzione latina che recitava: “Oremus et pro perfidis Judaeis”. Del resto, proprio Papa Giovanni XXIII, il Papa che iniziò il Concilio Vaticano II, non abolì la messa in latino. La messa in lingua fu introdotta dal suo successore, Papa Paolo VI. Quindi, definire automaticamente chi vuole la messa in latino, secondo il “vetus ordo”, un nemico del Concilio Vaticano II è sbagliato.
Inoltre, con l’ebraico ed il greco, il latino è una delle tre lingue storiche della Chiesa, le lingue che uniscono idealmente Gerusalemme, Atene e Roma. Una messa in latino può essere celebrata ovunque. Può essere celebrata qui in Italia, in Francia, in Germania, nel Regno Unito, negli USA o in Argentina. La messa in latino è simbolo di cattolicità.
Il termine “cattolico” significa “universale”.
La messa nella lingua nazionale di un Paese è certamente comprensibile per gli abitanti di quest’ultimo ma non dà l’idea della cattolicità di quella Chiesa che vede in Roma e nel successore di San Pietro i riferimenti. Semmai, dà l’idea di una Chiesa che si dice “cattolica” ma (di fatto) è una Chiesa nazionale. In nome dell’immediatezza nella comprensione della liturgia, si rischia di perdere il concetto di cattolicità.