Negli ultimi giorni è tornato di stringente attualità per le comunità italiane all’estero l’argomento cittadinanza. Le notizie su problemi in alcune sedi consolari, come la chiusura temporanea dell’accettazione di domande di cittadinanza a Santiago del Cile e le presunte pratiche discriminatorie che si sarebbero registrate in alcuni consolati tra cittadini italiani nati in Italia e nati all’estero, hanno messo in allarme le nostre comunità.
Il sottosegretario agli Esteri Ricardo Merlo ha dato rapida risposta ai due problemi che sarebbero o superati, o in via di soluzione.
C’è poi un’altra notizia che riguarda la modifica alla legge di cittadinanza, apportata dal cosiddetto Decreto Sicurezza. La norma approvata nel mese di dicembre, ha stabilito che “la concessione della cittadinanza italiana per matrimonio con un cittadino italiano, è subordinata al possesso, da parte dell’interessato, di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER)”.
Livello da accertare mediante certificazione spedita dalle Università di Siena o di Perugia o dall’Università Roma Tre oppure dalla Società Dante Alighieri di Roma. Di quest’ultima sono enti certificatori i principali Comitati della Dante Alighieri all’estero.
Va subito detto che la nuova richiesta è stata pensata nell’ottica delle decisioni prese dal governo di Roma e in particolare promosse dalla Lega, per rendere più arduo l’accesso alla cittadinanza italiana da parte degli immigrati che si stabiliscono in Italia.
Di rimbalzo la norma ha effetti all’estero, sugli stranieri che chiedono la naturalizzazione avendo sposato un italiano o italiana che risiedono fuori d’Italia. I casi in Argentina sono migliaia. La notizia ha provocato sgomento e preoccupazione e anche qualche protesta. Reazioni che sono comprensibili (a nessuno piace vedersi modificare le regole a partita iniziata), ma che non sono giustificate.
Infatti, come abbiamo chiesto molto prima che ci fosse questa regola o che nascesse il governo gialloverde: che senso ha pretendere la cittadinanza di un paese al quale non ci si sente legati?
Nel mondo ci sono milioni persone che amano l’Italia, la sua cultura, il suo stile di vita. Ce ne sono a migliaia, centinaia di migliaia negli Stati Uniti, in Europa, in Cina, in India, Giappone, ecc. A nessuna di loro viene in mente di chiedere la cittadinanza italiana. Anche se viaggiano in Italia e comprano prodotti italiani. Alcuni parlano l’italiano, altri no.
Ci sono anche milioni di discendenti di emigrati italiani nati negli Stati Uniti, Canada, in alcuni paesi europei o in altri continenti al di fuori del nostro. E nella stragrande maggioranza dei casi, nemmeno a loro interessa la cittadinanza italiana, almeno se si guardano le statistiche che ogni anno presenta la Fondazione Migrantes (Rapporto Italiani nel Mondo).
Molti fra loro amano l’Italia, viaggiano nel Bel Paese per conoscerlo o acquistano prodotti Made in Italy (o che si richiamano all’Italia), ma non chiedono il passaporto italiano. Viaggiano con il passaporto del Paese dove sono nati. Alcuni parlano l’italiano, altri no.
Ci sono poi migliaia di discendenti che hanno chiesto il riconoscimento della cittadinanza dei loro genitori o nonni o bisnonni italiani. Molti lo hanno fatto per la fierezza di essere discendenti di italiani, perché sentono il richiamo delle radici, perché sentono il legame con la terra da dove partirono i loro avi. Anche tra questi alcuni parlano l’italiano, e altri no, ma spesso chi non lo parla sente che gli manca qualcosa, che il suo percorso italiano, la sua appartenenza alla “Italian community” è incompleta.
Ci sono infine coloro che pensano alla cittadinanza italiana come sinonimo di passaporto di un paese dell’Unione europea, al quale vengono richieste meno condizioni per entrare in certi paesi, dell’Europa stessa, degli Stati Uniti, Canada e altri al mondo. Tra questi ci sono persone nate in paesi al di fuori dell’Italia e dell’Ue (Argentina, Brasile, Uruguay, solo per citare paesi nei quali c’è una grande domanda di turni per la cittadinanza) magari originari di altri paesi (anche lontani, di altri continenti), che hanno un coniuge che è cittadino/a italiano/a. E in base a tale cittadinanza, chiedono la naturalizzazione per matrimonio, per diventare italiani.
La domanda che sorge spontanea è: quale sarebbe l’interesse dell’Italia a concedere graziosamente la cittadinanza ad uno straniero residente all’estero per il solo fatto di aver sposato un italiano? Non è logico che chieda delle condizioni? E’ assurdo che chieda, come fanno tanti paesi al mondo (Stati Uniti, Canada, certi paesi dell’Ue) la conoscenza della lingua nazionale?
In questi giorni si parla anche di paesi che concedono le cosiddette “cittadinanze d’oro”. Sono paesi che concedono la propria cittadinanza a cittadini di altri paesi in cambio di congrue somme in valuta pregiata. L’Ue ha detto che si oppone a questo tipo di metodo per concedere la cittadinanza, ma in fondo, è una condizione anche la richiesta di soldi che aiutino a ripianare il bilancio e magari ad ottenere investimenti da paperoni di altri paesi. La concessione della cittadinanza è una prerogativa di ogni Stato, espressione della propria sovranità e le condizione che impone per concederla rispondono agli interessi politici del tempo che vivono.
Per concedere la cittadinanza, l’Italia si è basata tradizionalmente nel principio dello ius sanguinis e anche quando ha modificato la legge di cittadinanza, nel 1992, ha ribadito questo principio. Inoltre ha voluto accogliere le richieste che venivano dalle comunità dei suoi cittadini residenti all’estero, di rendere semplici le pratiche per il riconoscimento dei discendenti degli italiani emigrati, vedendolo come un arricchimento, a partire dalla costituzione di una “Italia fuori d’Italia “, parte costitutiva dello stesso Paese.
Tra l’altro allora, a chi si chiedeva se non fosse necessario chiedere la conoscenza dell’italiano alle migliaia o milioni potenziali richiedenti del riconoscimento della cittadinanza, veniva opposta una storica mancanza dell’Italia.
Il paese di origine di milioni di italiani, non si era mai preoccupato – o almeno non lo aveva fatto in modo efficace – di facilitare l’insegnamento dell’italiano ai figli degli emigrati e non aveva coltivato, per decenni, i rapporti con i discendenti.
In realtà per decenni l’Italia ha trascurato i suoi cittadini all’estero. Negli ultimi anni le cose sono cambiate. Il fenomeno del ritorno del nazionalismo, del sovranismo, ha avuto riflessi anche nel modo di concepire la cittadinanza. Si punta a condizionarne la concessione, a renderne più arduo l’accesso. Ma sono le regole del gioco.
Ogni Paese decide quali sono queste regole, in base a quelli che ritiene i suoi interessi. Quindi, che ora venga richiesta una conoscenza della lingua italiana in un livello B1, è una richiesta del tutto legittima.
Con realismo (o con cinismo) si potrebbe chiedere ai richiedenti residenti all’estero della cittadinanza per matrimonio con un italiano/a: ma tu, perché vuoi diventare cittadino/a italiano/a? Se è per amore per l’Italia, quale maggiore prova d’amore che imparare la lingua del Paese del quale si vuole diventare cittadini, utile, tra l’altro, per conoscerlo e capirlo meglio? Se è per viaggiare in Italia, da un Paese come l’Argentina, basta ricordare che non è richiesto il visto per viaggi di durata fino a novanta giorni. E se è per viaggiare in altri Paesi europei, o dell’America Settentrionale, e allora la cittadinanza e il rispettivo passaporto sono solo uno strumento di viaggio e in tal caso, chi lo vuole, deve adeguarsi alle condizioni per ottenerlo.
Ad ogni modo, come sostengono alla Dante, la bellezza e la ricchezza della lingua italiana e della cultura millenaria del Bel Paese, sono molto di più e vanno molto piú in là di un livello B1. Imparare l’italiano è l’inizio di un viaggio di arricchimento intellettuale, culturale e spirituale. Molto, ma molto di più di più di un semplice certificato livello B1.