Torna il tema dello ius soli nel dibattito politico italiano. Una questione che era stata lasciata fuori dai punti del programma giallorosso, forse proprio perché scottante e assai divisiva. Ma le vecchie volpi di sinistra l’hanno ritirata fuori e così ci tocca parlarne, perché l’argomento è di attualità e va raccontato e affrontato, ma ci sa tanto di capriola nel passato. Ancora? Ancora a parlare di cittadinanza agli immigrati e ai loro figli? Diamo atto ai compagni di avere il dono della caparbietà, ma ci auguriamo che questo gran discutere di ius soli finisca presto e che il tema venga abbandonato una volta per sempre.
Noi non siamo né l’America né la Francia e non lo vogliamo diventare. Non siamo pronti né interessati ad una società multiculturale, se ciò significa regalare la cittadinanza italiana.
Certi nostri politici si riempiono spesso la bocca con la parola “italianità”. Viene da chiedersi se davvero sappiano cosa significhi. Dice il dizionario di Google: “Italianità – sostantivo femminile: partecipazione al patrimonio di cultura e civiltà attribuito all’Italia”. Fredda come definizione.
Andiamo a leggere sul vocabolario Treccani, secondo cui italianità significa “essere conforme a ciò che si considera peculiarmente italiano o proprio degli Italiani nella lingua, nell’indole, nel costume, nella cultura, nella civiltà”. Si legge ancora: “Più comunemente, l’essere e il sentirsi italiano; appartenenza alla civiltà, alla storia, alla cultura e alla lingua italiana, e soprattutto la coscienza di questa appartenenza”. Stupendo. Ci stiamo avvicinando.
L’italianità, in sé, come un bellissimo diamante tricolore, ha tante sfaccettature. Vanno viste ciascuna nella giusta prospettiva se vogliamo coglierne la luce. Dunque, italianità è certamente made in Italy, con le eccellenze italiane che vanno dal settore della moda a quello della tecnologia, dall’agroalimentare al ramo dei motori e della nautica. E poi arte, cultura, turismo.
Italianità è anche un modo di vivere, di sapere affrontare problemi ed imprevisti che la quotidianità presenta a ciascuno di noi con la filosofia di vita che caratterizza il nostro Dna, costruitosi nella cultura classica. Quello italiano è un popolo che conosce bene l’arte di resistere e sopravvivere alle alterne fortune, sa lavorare duro e a testa bassa quando ce n’è bisogno; e sa trovare il modo di godersi comunque il buon cibo e le bellezze dello Stivale.
Secondo il nostro modo di pensare, italianità vuol dire soprattutto sentirsi italiani. E dunque appartenenza. Soprattutto, dice bene il vocabolario Treccani, “la coscienza di questa appartenenza”. Siamo fieri di essere italiani e consapevoli di esserlo. E la parola italianità ci appartiene.
Ius soli, dunque. Eppure oggi, al compimento del 18esimo anno di età, un figlio di una coppia straniera regolarmente residente in Italia ha il diritto di chiedere la cittadinanza italiana. E fino a quel momento godrà di tutti i diritti di cui godono tutti gli altri bambini. Quando avrà 18 anni, tuttavia, in maniera consapevole, potrà diventare cittadino italiano anche perché sentirà di appartenere a un popolo e a un Paese che l’ha visto crescere.
Sono troppi i problemi in Italia per tornare a pensare allo ius soli. La cittadinanza non si regala, lo ribadiamo, ma si conquista. Senza contare che oltre confine ci sono tanti italiani nel mondo che attendono che venga messa la parola fine alle interminabili attese per poter svolgere una pratica di cittadinanza così come a quelle antipatiche e ingiuste discriminazioni tra uomini e donne per quanto riguarda la possibilità di trasmettere la cittadinanza italiana.
Insomma, si discute da vent’anni di riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza italiana per chi l’ha perduta; visto che si tratta di italiani, non sarebbe più logico e più di buon senso occuparsi di loro, piuttosto di chi italiano non è e magari non vuole neppure diventarlo?