Pubblichiamo qui di seguito l’articolo del giornalista Federico Rampini, pezzo rilanciato dal sito del Corriere della Sera e apparso per la prima volta nella newsletter Global, che Rampini pubblica ogni sabato: per riceverla basta iscriversi qui.
Perché altri paesi sanno usare la diaspora come una risorsa strategica per la propria economia, e l’Italia molto meno? È uno dei temi sollevati da un’indagine della The European House Ambrosetti con Niaf, la National Italian American Foundation che rappresenta gli italo-americani. Annoso problema, con il quale mi confronto da una vita essendo «espatriato» fin da bambino, in Nordeuropa, e poi in età adulta negli Stati Uniti, Paese del quale ho preso anche la mia seconda cittadinanza. Sono dunque diventato anch’io, in senso letterale, un italo-americano con il doppio passaporto. Per il mestiere che faccio io, il confronto tra sistemi-paese è una ginnastica costante e obbligatoria. Per il mestiere che fa mia moglie, docente d’italiano negli Stati Uniti, il paragone con le politiche culturali di altre nazioni è altrettanto importante.
Spesso in passato lei ed io ci siamo chiesti perché la Cina o la Francia, la Spagna o Israele sappiano valorizzare le proprie comunità all’estero meglio di noi. Ora questo studio promosso dalla Niaf insieme con The European House Ambrosetti, e presentato al Forum di Villa d’Este-Cernobbio, affronta la questione con un approccio sistematico.
80 milioni o 5,8 siamo comunque tanti all’estero
Per cominciare, qualche numero serve a dare le dimensioni del fenomeno. L’Italia ha avuto grandi ondate di emigrazione nell’Ottocento e nel Novecento; tuttora siamo un paese che ha flussi di popolazione in uscita, non solo in entrata. Uso con parsimonia termini ambivalenti e controversi come «fuga dei cervelli», ma sappiamo di che cosa si tratta: oggi emigrano italiani molto qualificati, cosa che non era vera per la maggioranza di coloro che emigravano cento o duecento anni fa. Comunque la stratificazione delle varie ondate migratorie fa sì che la nostra diaspora in senso lato è fatta di 80 milioni di persone. Cioè: coloro che all’estero discendono almeno in parte da italiani, sono più numerosi degli abitanti dell’Italia! Questa però è una stima larga in quanto include anche tantissimi che non hanno più la cittadinanza e forse una parte di loro non si sentono neppure legati alle origini degli avi. Questa diaspora in senso lato è distribuita così: 30 milioni in Brasile, 20-25 milioni in Argentina, 17 milioni negli Stati Uniti, 4 milioni in Francia e così via con altri insediamenti importanti in Germania, Belgio, Canada, Australia.
Mercato «naturale» per il Made in Italy e investitori potenziali
Anche se gli 80 milioni non sono tutti tecnicamente italiani, e una parte hanno dei legami molto tenuti con le origini familiari, purtuttavia il dato è importante perché rappresenta un mercato «naturale» per il made in Italy. Faccio un esempio semplice che è familiare a chiunque come me abbia vissuto all’estero. Ci sono discendenti di italiani che giunti alla terza o quarta generazione magari non parlano più la nostra lingua, però «mangiano italiano» e sono il primo sbocco per l’esportazione di nostri prodotti agroalimentari.
All’estremo opposto, nel ventaglio delle misure, abbiamo invece una diaspora degli italiani che si possono definire al 100% tali: sono quelli che hanno conservato, o hanno ottenuto, la cittadinanza e il passaporto della nostra Repubblica. Sono comunque un numero assai importante: 5,8 milioni pari a un decimo della popolazione residente nella penisola. In questo caso la classifica dei Paesi dove risiede la nostra diaspora è leggermente diversa: al primo posto arriva l’Argentina, seguita (in quest’ordine) da Germania Svizzera Brasile Francia Regno Unito e Stati Uniti. Sappiamo che questi 5,8 milioni di «italiani a pieno titolo» che appartengono alla nostra diaspora è sicuramente destinato a crescere, sotto l’effetto di due fattori: le partenze all’estero che continuano; e le pratiche per ottenere la cittadinanza da parte di chi l’aveva perduta ma ne ha diritto. Gli arretrati amministrativi della nostra rete consolare all’estero sono paurosi, e non per colpa del personale ma per carenza di organici e per la mole notevole di richieste da smaltire.
Le lezione sorprendenti della Cina
Il tema che pone il Paper di Niaf-Ambrosetti è questo: stiamo valorizzando la diaspora per tutto l’aiuto che può fornire al sistema Italia? Per esempio nelle strategie di espansione all’estero delle nostre imprese? O, in senso inverso, come fonte d’investimenti produttivi dall’estero verso l’Italia? O nella promozione del turismo verso l’Italia? La risposta purtroppo è negativa. Il dialogo tra l’Italia e la sua diaspora è inadeguato, i rapporti di collaborazione esistono ma sono minimi rispetto alle potenzialità. Dalla mia casistica di aneddoti personali, accumulati in decenni di vita all’estero, ho raccontato alcuni esempi in una intervista che è «confluita» dentro il rapporto Ambrosetti-Niaf.
Però l’aspetto più innovativo di questo studio io l’ho trovato nei confronti con altri. Conosco per esempio il caso della Cina: la Repubblica Popolare è riuscita nel doppio capolavoro di mandare generazioni di suoi giovani a studiare all’estero per compensare quella che soprattutto negli anni Ottanta e Novanta era l’arretratezza della sua istruzione devastata dalla Rivoluzione culturale maoista; poi di farne tornare in patria una quota assai cospicua. Né l’una né l’altra cosa erano scontate. Primo, non è banale che Deng Xiaoping negli anni Ottanta abbia detto a una generazione di giovani «andate a studiare in America, in Europa, in Giappone», perché di solito non è così che si comporta un regime comunista e autoritario. Secondo, è ancor meno banale che un regime comunista e autoritario sappia offrire condizioni attraenti per il ritorno dei cervelli, e non solo in termini di remunerazione ma anche di potere e posizioni di responsabilità.
Meglio di noi anche la Francia e perfino l’Irlanda
Però la Cina, prevedo l’obiezione, non si può paragonare all’Italia, non foss’altro che per le dimensioni. Allora vogliamo parlare della Francia? Solo le risorse economiche che Parigi dedica alla promozione della sua lingua e della sua cultura all’estero – uno dei modi per consolidare identità e coesione nella diaspora – fanno impallidire quel che facciamo noi. Anche qui prevedo l’obiezione: la Francia fu un impero, tuttora la sua lingua viene parlata in molte nazioni africane oltre che in Belgio, Lussemburgo, Svizzera più qualche isola del Pacifico, quindi per forza di cose è allenata a «irradiare» la sua influenza dedicandovi mezzi economici notevoli.
Tutte le obiezioni di cui sopra non valgono affatto quando dallo studio Ambrosetti-Niaf si scopre che abbiamo qualcosa da imparare perfino… dall’Irlanda! Proprio così, pur essendo un Paese più piccolo e con un’economia ridotta rispetto alla nostra, l’Irlanda ha al suo attivo dei successi notevoli nelle politiche per la diaspora. Dovremmo studiarci con cura il ventaglio di misure contenute nella «Global Irish Ireland’s Diaspora Policy» varata nel 2015. Per sostenere le proprie comunità di emigrati Dublino ha creato un Emigrant Support Programme, con al suo interno delle risorse dedicate alla comunicazione, come il Global Irish Media Fund. Per favorire il ritorno dei discendenti di irlandesi nella madrepatria degli avi, per attivare flussi di investimenti imprenditoriali e ritorni di cervelli, esiste il programma «Back for Business». È tutto da studiare. Non abbiamo bisogno di scoprire chissà cosa: basta osservare con attenzione ciò che fanno gli altri, copiarli quando le loro politiche hanno successo.