L’affermazione di una lingua di cultura di alto rango, dotata anche di strumenti che la definivano e ne permettevano l’apprendimento con lo studio, fece subito avvertire il dislivello nei confronti degli altri volgari regionali e locali, che pur avevano avuto un uso scritto e letterario.
A questi fu dato allora il nome di “dialetti”, termine che nell’antica Grecia indicava le parlate “particolari” di una regione.
Per lungo tempo ancora lingua italiana e dialetti si fronteggiarono, suddividendosi gli ambiti del loro uso. In una situazione generale come quella dell’Italia – frammentata politicamente, priva di uno sviluppo sociale e culturale unitario – la lingua fu lo strumento soprattutto della cultura scritta intellettuale (dell’alta letteratura e gradualmente sempre più delle scienze, del diritto, della filosofia, della storiografia), i dialetti erano usati, da tutte le classi sociali, per la comunicazione vivamente parlata. Questa vicinanza alla vita reale li rese adatti anche a una letteratura collaterale e complementare di quella in lingua: la letteratura appunto “dialettale”, che trattava (specialmente in versi e in opere teatrali) temi comici e di vita popolare ed era coltivata da scrittori raffinati, di solito attivi nelle grandi città, soprattutto a Napoli, Roma, Bologna, Venezia, Padova, Milano.
Tra gli autori più famosi si possono segnalare subito, come esempi, il padovano Angelo Beolco, detto il Ruzante, e il napoletano Giambattista Basile, in una fitta schiera che vede, nei secoli XVI-XVIII, anche l’astigiano Gian Giorgio Alione, il bolognese Giulio Cesare Croce, il milanese Giovanni Maria Maggi, il palermitano Giovanni Meli, i veneziani Andrea Calmo e Carlo Goldoni (per una parte notevole della sua produzione).
Altre funzioni e altri sviluppi la letteratura dialettale avrebbe acquistato nell’Ottocento e nel Novecento.
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