Lo scorso 6 febbraio si sono celebrati i 200 anni dalla nascita di Charles Dickens, il fondatore (con Victor Hugo) del romanzo sociale, genere che tratteggia la vita dei ceti economicamente svantaggiati e denuncia le situazioni di sopruso e pregiudizio, genere che influenzò in patria Henry Fielding e Daniel Defoe e, per alcuni versi, Laurence Sterne e, in Italia, si affermò come una nuova forma di realismo, privo di ogni valenza magica, come voleva Bontempelli, con Bilenchi, Silone e Bernani.
Siccome in questi giorni Marsilio ha ripubblicato, in due eleganti ma insieme economiche edizioni, altrettanti capolavori di Dickens e dal momento che la pausa di Natale invita alla lettura, vi propongo questi due titoli come regalo a voi stessi, per sentirsi più in sintonia con uno spirito che i fatti contrastano o ritardano nel suo aleggiare.
In primo luogo il libro che secondo Booksblog è il più venduto al mondo: “Canto di Natale in prosa” e poi il meno noto (ma non meno bello) “L’invasato”. Il primo è una fiaba da raccontare ai bambini e da rileggere da grandi, una storia di paura, di morte ma anche di solidarietà umana, di fantasmi grotteschi che si sfumano e si frammentano nel sogno e nell’incubo privato, un grande ritratto di solitudine e di vecchiaia e di una città degradata, e soprattutto un magico regalo di Natale che trasforma il gelo e il buio dell’egoismo e dell’avarizia nel calore di un sorriso e di una festa per tutti. L’edizione recente di Marsilio è speciale e vuole aiutarci a ritrovare in noi il senso di appartenenza, con la presenza del testo originale inglese, che ci restituisce il dono impagabile di una scrittura che tocca i registri più svariati del grottesco e del comico, del tragico e del sentimentale, in una scansione rapidissima (lo spazio è quello di una notte) di tempi e di modi. E “speciale” è la passione della curatrice e traduttrice (Marisa Sestito) che, nella sua lunga e profonda consuetudine con Dickens e con i suoi molteplici registri e generi, ci guida a riconoscervi la familiarità di temi e figure e al tempo stesso a scoprirne la specificità e l’unicità.
Quanto a “L’invasato”, è sempre una storia di Natale, un magico sconcertante racconto, su un dono stregato e crudele, e su uno sventurato patto che il protagonista, il chimico Redlaw, sancisce con il proprio doppio fantasmatico. Il dono – che egli è condannato a trasmettere a tutti coloro che gli si accostano – è quello di poter dimenticare, poiché è soprattutto "torto, dolore e affanno" che la memoria del passato sembra portare con sé. Ma non comprende, il severo scienziato, che insieme a tutto questo se ne andranno ricordi, emozioni e desideri, e tutto ciò che va a costruire, nel tempo, lo spessore della natura umana. In una cupa discesa verso la solitudine e l’indifferenza, vediamo lui stesso, e via via tutte le figure che incrociano il suo percorso in una Londra povera e degradata ma vitale, perdere i tratti della solidarietà, della benevolenza e dell’allegria e chiudersi nell’egoismo, nell’ingordigia e nel sospetto. Indenne dal "dono" resta la figura femminile e materna di Milly, semplice e pura di cuore, ed è a lei che Redlaw finisce per affidarsi, per recuperare, insieme alla memoria e ai nodi dolorosi che col patto aveva cercato di sciogliere, la propria umanità e la gioia del Natale. Ritornano tutti i caratteri e i temi del grande Dickens: l’alternanza di comico e tragico, di momenti di cupa introspezione e di incontenibile allegria, delle figure dell’ombra e di quelle della benevolenza; e l’infanzia, nelle sue componenti più inquietanti e in quelle più tenere; e la prosa magnifica, costruita su vertiginosi scarti di ritmo e incantatorie ripetizioni.
Anche qui c’è il testo inglese e l’eccellente opera di traduzione di Marisa Sestito, docente di letteratura inglese presso l’Università di Udine, che ha pubblicato studi monografici e saggi su Shakespeare, Milton, Dryden, sul teatro inglese di Sei e Settecento, sulla narrativa ottocentesca ed ha tradotto testi di Elizabeth Gaskell e Anne Brontë e di Dickens, naturalmente, cogliendone sempre lo spirito più autentico.
E per chi avesse più tempo ed inclinazione alla lettura, propongo poi, di leggere, in coda, “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao, in cui con stile a metà fra Dickens e Zolà, la scrittrice di Patrasso compie una esplorazione antropologica in terre incognite, addentrandosi nelle viscere labirintiche di una città e del suo popolo; un’esplorazione tutta al femminile per accompagnare quasi per mano il visitatore-lettore in un itinerario dove ai cunicoli, gli antri e gli anfratti del ventre di tufo si alternano momenti di graffiante riflessione spietata e analisi sulle condizioni della città.
Gli occhi e le parole della Serao sono come un tagliente bisturi che superando lo strato superficiale del corpo di Napoli fatto di effimero fascino ed ereditaria bellezza, scava tra pieghe nascoste e scivolose, manifestando i mali cronici che affiggevano Napoli e l’Italia intera, ma con tracce di riscatto e di speranza, indispensabili ad ogni uomo che voglia restare tale.
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