Un Paese che vive tra l’oleografia della ‘Svizzera del Medio Oriente’ e l’altro stereotipo, tragico, di centro nodale di ogni possibile intreccio terroristico mediorientale. Entrambi luoghi comuni, ma non di meno veri, fanno del Libano uno dei Paesi piú contraddittori e a rischio del pianeta. Dopo un triennio di relativa calma, oggi la mano terrorista è tornata a colpire: e siccome siamo in Libano non si è limitata a un ordigno di media potenza, ma ha fatto le cose in grande, come ai vecchi tempi. Un’automobile, riempita di esplosivo, ha squassato la collinetta di Ashrafieh, nella parte orientale di Beirut, centro del potere politico ed economico cristiano, soprattutto maronita. Ma una decina di morti e un centinaio di feriti non sono stati il prodotto del caso. Si è colpito sí nel mucchio ma, quasi certamente, con l’intenzione di ucciderne uno in particolare: il generale Wissam al-Hasan, sunnita, capo dell’intelligence della polizia.
Oltre le espressioni di condanna per gli autori della strage e di solidarietà con tutte le vittime – parole piovute prontamente da ogni parte, compresi i governi di paesi che, verosimilmente, potrebbero essere tra i mandanti dell’attentato – sarà difficile risalire ai responsabili, almeno in tempi utili perch‚ una ipotetica giustizia possa sanzionare questo ennesimo misfatto.
Dietro potrebbero essere in tanti, dai servizi di sicurezza generale a quelli dell’esercito, entrambi in mano all’Hezbollah, il Partito di Dio, da sempre vicino all’Iran e alla parte sciita della Siria, che poi è quella in cui è concentrato il potere (oggi invero pencolante) del presidente Assad. In effetti, dato il numero di fazioni, giri spionistici interni e internazionali, gruppi islamici e denominazioni cristiane, etnie diverse e ciascuna convinta di costituire essa la classe degli ‘ottimati’, si direbbe che metà dei circa quattro milioni di residenti del Libano, quasi tutti in disarmonia se non in aperta ostilità tra loro, passino il tempo a spiare l’altra metà.
Parlare di numeri, con riferimento alla popolazione libanese, peraltro, è quasi improponibile, e ció spiega il fatto che sono precisamente 80 anni che nel Paese dei cedri (al tempo ancora ce n’erano, oggi si sono quasi estinti) non si tiene un censimento ufficiale, ma si azzardano solo stime, cercando di mettere assieme i dati di 18 confessioni. La maggior parte cristiane, ma ci sono anche sei gruppi musulmani e il residuo (appena un centinaio di persone) della un tempo fiorente minoranza ebraica.
Ció perchè, se emergesse un dato ‘troppo’ a favore di una o un’altra comunità, sia religiosa sia politica, sia etnica (non sempre tali origini sono sovrapponibili secondo gli schemi comuni), ció potrebbe portare a effetti destabilizzanti potenzialmente esplosivi. E, come si è visto, non è precisamente di esplosioni che il Paese ha bisogno.
All’attentato di oggi, peraltro, potrebbe aggiungersi un ulteriore elemento di ambiguità e mistero. Secondo una indagine della televisione canadese CBC, basata su fonti del Tribunale speciale libanese, il generale ucciso oggi potrebbe avere svolto il ruolo chiave di traditore quando nel 2005 fu ucciso in un plateale attentato l’ex premier (sunnita, secondo la spartizione delle cariche in vigore dal 1989) Rafiq Hariri, della cui protezione era responsabile proprio al-Hasan. Che oggi potrebbe aver scontato l’essere asseritamente passato otto anni fa dalla parte dello sciita Hezbollah, sia – per converso – l’aver voluto rientrare nei ranghi sunniti ai quali, peraltro, almeno formalmente apparteneva dalla nascita.
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