Il dittatore nord coreano Kim Jong-un non è un pazzo e non lo è mai stato. Piuttosto ha sempre e volutamente lasciato che altri lo pensassero come squilibrato e irrazionale.
Prevedere il comportamento di una persona razionale è relativamente facile e nel trattare con lui si usa lo stesso linguaggio e si parte dalle stesse premesse logiche.
Se invece si ha a che fare con una persona imprevedibile occorre essere eccezionalmente prudenti nei propri comportamenti, se non altro per evitare che illogici scatti d’ira possano essere seguiti da reazioni incontrollate. Con tutti i rischi che comporterebbe. Tutto ciò a Kim faceva gioco.
Premesse le sicure differenze e la diversa scala su cui agisce, anche Donald Trump ha saputo usare la stessa tattica in tutti questi anni. Alcune sue sparate erano e sono oggettivamente inverosimili o almeno irrazionali. Sembrano piuttosto spacconate.
Ad esempio la volontà di applicare dazi del 100% su tutte le merci cinesi o di non voler più rispettare l’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica.
Da imprenditore quale è sempre stato, il tycoon è sicuramente presuntuoso, ma non è affatto stupido e conosce bene le possibili conseguenze, negative per il suo stesso Paese, dell’applicazione di idee come quelle sopra enunciate.
Proprio come un qualunque imprenditore e buon venditore davanti alla controparte usa, all’occorrenza e alternativamente, bastone e carota. Suscitando in chi ha di fronte il dubbio di una sua imprevedibilità spesso ottiene risultati che con un dialogo semplicemente razionale non avrebbe potuto perseguire.
Un esempio riuscito della sua tattica sta nella richiesta perentoria agli alleati membri della Nato di aumentare almeno al 2% del PIL le proprie spese per la difesa. Inoltre ha richiesto loro di organizzarsi, pur rimanendo dentro la Nato, per provvedere in gran parte autonomamente alla propria difesa. Prima di lui ci avevano già provato altri Presidenti, sia democratici che repubblicani, ma con nessun risultato concreto.
Trump invece c’è riuscito: quasi tutti i Paesi europei hanno già raggiunto (qualcuno l’ha superato) il 2% e l’Unione, pur continuando ad essere politicamente divisa, sta cercando un qualche modo per razionalizzare e uniformare le proprie spese in armamenti. Naturalmente la parte del leone la faranno pur sempre le armi americane.
La sua parola d’ordine sventolata in campagna elettorale è stata quella di aumentare i dazi di importazione da tutti i Paesi che vantano un avanzo commerciale verso gli Stati Uniti. Ovviamente qualcosa dovrà fare verso questa direzione, se non altro per dare l’impressione ai propri elettori di mantenere gli impegni elettorali, ma come ogni venditore di tappeti chiederà 100 per ottenere 10 o, se sarà bravo e fortunato e gli interlocutori si lasceranno intimidire, almeno 20.
Tuttavia non può sottovalutare, proprio perché uomo di impresa, che un aumento generalizzato di tariffe di importazione avrà come prima conseguenza un aumento dell’inflazione interna e come seconda l’incremento delle stesse importazioni, più care, tramite Paesi terzi. Senza contare delle possibili conseguenze politiche.
Le due sfide più grandi che lo attendono sono però la guerra in Medio Oriente e quella in Ucraina. A Netanyahu ha detto di “completare il lavoro” fino alla distruzione di Hamas, e per quanto riguarda l’Ucraina ha promesso di porre fine al conflitto in pochi giorni.
Indubbiamente, nessuno ancora riesce ad immaginare come pensa di risolvere i due casi, ma qualunque osservatore di politica internazionale può constatare che la situazione del Medio Oriente è talmente complicata che nemmeno Kissinger avrebbe saputo cosa proporre per pacificarla. Israele è molto diviso al proprio interno e una grande frangia della popolazione pensa di avere il diritto su tutta la terra che va dal mare al Giordano. Cosa succederebbe ai milioni di palestinesi che attualmente vi abitano, considerato che né Giordania né Egitto né Siria possono permettersi (né lo vogliono) assorbirli?
Non va nemmeno dimenticato che l’ultima Legge Fondamentale voluta da Benjamin Netanyahu e dai suoi fanatici alleati statuisce che Israele è la terra degli ebrei, e di conseguenza chiunque non lo sia è, se va bene, al massimo tollerato.
Anche la soluzione che tutti invocano e che sembrerebbe la più ovvia, quella dei due Stati, non è più, se mai lo è stata, di semplice applicazione. Settecentomila sono attualmente i coloni abusivi presenti in Cisgiordania e ogni giorno aumentano. Come sarà possibile scacciarne almeno una gran parte per consentire la nascita di uno stato palestinese? Si inizia una guerra civile? E a Gaza? La militanza di Hamas può anche essere ridotta ai minimi termini, ma le morti e le distruzioni causate dallo IDF hanno sicuramente aumentato la diffusione dell’odio contro Israele e i suoi abitanti.
La questione Ucraina sembra apparentemente più semplice, ma così non è. Certamente si dovrà negoziare con Putin anche abbandonando al suo destino la “marionetta impazzita” Zelensky, ma quali possono essere la basi su cui incontrarsi?
La Russia sta vincendo sul campo di battaglia e le ultime autorizzazioni di Biden in merito all’uso di armi americane verso l’entroterra russo non cambieranno le sorti del conflitto, salvo innescare una guerra più ampia che potrebbe diventare mondiale.
Mosca potrebbe essere disponibilissima a qualche trattativa, ma ci sono punti cui non potrebbe rinunciare in nessun modo: l’Ucraina non dovrà mai entrare nella Nato, l’esercito ucraino dovrà diventare quasi inoffensivo e Donbass e Crimea devono restare russi.
Poi c’è il problema delle sanzioni. Ovviamente se gli Stati Uniti, primi attori di questo conflitto, accettassero queste condizioni, la guerra potrebbe finire immediatamente, ma tutto il mondo leggerebbe tale esito come una sconfitta dell’Occidente.
L’unica maniera per salvare la faccia, se pur parzialmente, sarebbe di annunciare l’immediato ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea. Ne applaudirebbero non solo gli Stati Uniti ma anche Russia e Cina perché l’ingresso di Kiev nell’Unione significherebbe, per motivi economici e politici, la fine del sogno di una Europa politicamente più integrata e quindi le grandi potenze potrebbero continuare a negoziare da posizione di forza con i singoli staterelli dell’Europa.
A completamento di quanto sopra e considerate le difficoltà fin qui enunciate (e non sono certo tutte quelle sul tavolo che Trump si troverà ad affrontare), non si può tacere che gli ostacoli maggiori potranno nascere all’interno degli stessi Stati Uniti. Molti presidenti statunitensi hanno tentato di cambiare la politica estera del Paese ma i loro sforzi sono spesso falliti a causa di una inerzia onnipresente in tutte le strutture pubbliche ben consolidate di ogni Paese. Carter aveva deciso nel 1977 di ritirare le forze americane presenti in Corea del Sud e non ci riuscì. Obama annunciò di voler chiudere Guantanamo nel 2009, ma quella prigione è ancora attiva.
Lo stesso Trump aveva dichiarato che nel 2019 non sarebbe più rimasto nessun militare statunitense in Siria eppure nulla avvenne. In tutti questi, e in altri casi, la burocrazia non si è mai opposta apertamente ma ha vanificato quelle che sembravano essere decisioni imprescindibili. Non è, comunque, soltanto una questione di burocrazia. Esistono forze apparentemente slegate tra loro che tuttavia riescono sempre a far prevalere il loro orientamento contrario. Così come in altri Stati democratici, i ministri dispongono ma è chi sta sotto di loro che applica o vanifica decisioni che sembrano irreversibili.
Negli Stati Uniti la struttura del Dipartimento di Stato e di quello della Difesa sono macchine complesse e godono nella pratica di una loro certa autonomia. Oltre a loro, le varie Agenzie di intelligence agiscono non solo al di fuori ma frequentemente addirittura all’insaputa dei vertici politici.
Come non bastasse, il sistema elettorale americano fa sì che senatori e deputati, che pur appartengono a uno dei due partiti dominanti, rendono conto personalmente alla base elettorale cui devono la loro permanenza o meno al Senato e al Congresso.
Più che in altre democrazie i parlamentari si trovano spesso a votare differentemente dalla posizione ufficiale del loro partito. Che dire poi delle numerose, e spesso ricche, lobby che condizionano governi e parlamenti?
Sia il settore privato sia molti governi stranieri agiscono da sempre sul Congresso per garantirsi le politiche che li favoriscono riuscendo a bloccare, o almeno annacquare, decisioni che potrebbero essere di interesse pubblico.
Infine, sempre negli Stati Uniti, hanno un loro peso anche i vari Think tank ove, per partito preso o per conformismo assodato, si elaborano concetti e programmi poi ampiamente pubblicizzati dai media e quindi influenti sull’opinione pubblica.
È pur vero che Trump ha annunciato di voler fare piazza pulita di tutti gli alti funzionari dei quali dubita la fedeltà ma, se mai ci riuscisse considerato il trasformismo ed il travestimento connaturato a molti alti burocrati, il rischio è che li sostituisca con gente inesperta che potrebbe inficiare l’efficienza della macchina burocratica.
Trump entrerà in carico solo nel prossimo gennaio e nel frattempo potrà allietarci con altre “sparate” scioccanti oppure rendere più trasparenti le sue vere intenzioni. Nel durante, e anche dopo, non ci resta che aspettare e inviare a lui i nostri auguri. Con l’auspicio che valuti sempre le conseguenze di quel che dice.