In un forum linguistico del “C. della S.” online un partecipante ha deprecato la “scarsità di termini” dei mass media e ha espresso il timore che la lingua italiana “si riduca ben presto a 200 vocaboli”. È proprio vero: in Italia, terra delle mode, a certe parole e frasi arride all’improvviso una gran fortuna: esse sono sulla bocca di tutti. Il che ha come effetto di ridurre la varietà del vocabolario di chi parla o scrive. “Tenere alta la guardia” è una di queste. Un’altra è “fare chiarezza”; frase cristallina, perentoria, intransigente, che esala superiorità morale e pragmatismo ed efficienza.
Colui che “porta avanti il discorso” si guarda bene dall’appesantire il proprio vibrante appello alla chiarezza con l’uso di termini aggiuntivi: fare chiarezza sull’“accaduto”, sugli “avvenimenti”, sulle “circostanze”, sui “retroscena”, sui “risvolti”. Chi invita a “far chiarezza” ancor meno precisa quel che l’altro, cui l’invito è rivolto, dovrebbe fare di concreto, perché il punto di forza della frase è proprio nella sua concisione, o se vogliamo nella sua mancanza di chiarezza. Ad aggiungere qualcosa si perderebbe l’effetto, dato che “fare chiarezza” è una frase assoluta con un potere taumaturgico alla “abracadabra” e una risonanza poetica alla “m’illumino d’immenso”.
Un giornalista che si rispetti non scriverà “XY ha voluto chiarire la sua posizione”, frase d’anteguerra che sa di naftalina, di “bagnasciuga” e di “battaglia del grano”, bensì: “XY ha voluto far chiarezza”. E così anche preferirà all’antidiluviano: “L’omicidio non è stato ancora chiarito”, un contemporaneo “Sull’omicidio non è stata fatta ancora chiarezza.”
L’invito alla “chiarezza” ha spazzato via l’uso di termini ed espressioni che servivano a precisare il pensiero, ma che, ahimè, non erano abbastanza icastici, omologanti, ufficiali. Finite quindi le frasi con i chiarimenti, le chiarificazioni, gli accertamenti, le prove (a dire il vero, resistono ancora gagliardamente – ma sono i soli – i famigerati “riscontri”, termine a mio avviso ambiguo su cui occorrerebbe, questa volta sì, “far chiarezza”). Nella lingua italiana corrente non si delucida, non si fa luce, non si chiariscono dubbi, retroscena e circostanze, non si accertano verità, non si stabiliscono fatti, non si determinano negligenze e responsabilità, non si fugano ombre. Non si mette più nulla né in luce né in chiaro. Si fa invece “chiarezza”! Anzi, si invitano gli altri a far chiarezza. Il che – converrete – è molto più comodo.
Fare chiarezza su cosa? Di volta in volta su tutto, poiché per gli appassionati della dietrologia e per i patiti del “cui prodest?” – legioni in Italia – niente è come appare, e ombre e sospetti incombono su tutto. Nella patria del pressapochismo, della confusione e della dietrologia l’invito a fare chiarezza è un coro possente, degno del Nabucco, dalle Alpi alla Sicilia. Ma nessuno dà il buon esempio cominciando a farla, lui, la chiarezza; la mancanza di chiarezza – ognuno di noi lo sa – è il male cronico degli altri.
Lo stesso presidente Napolitano, che non ha mai fatto chiarezza sull’incredibile abbaglio preso durante la sua lunga vita sui paesi del comunismo affamatore e liberticida, visti da lui – fino alla caduta del Muro – come paesi modello per l’Italia, ebbene il nostro simpatico, umano, patriottico presidente oggi è infaticabile nel lanciare, con accento partenopeo, il suo quotidiano invito: “Si deve far chiarezza!”
Dai giornali: “Sul caso Ruby il Colle e i vescovi chiedono a Berlusconi di fare chiarezza”. Cari lettori, so che non è facile, ma dimentichiamo per un attimo Ruby e Berlusconi. Facciamola invece noi la chiarezza. Anzi, fatela voi! E senza mai abbassare la guardia!
Claudio Antonelli
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