Se non ve ne foste accorti i nostri salari sono tra i più bassi d’Europa. Oggi ne abbiamo la certezza, visto che l’EuroStat prendendo in esame le retribuzioni lorde dei dipendenti assunti a tempo indeterminato in una impresa con 10 o più addetti, ci informa che nel 2009 un lavoratore italiano ha ricevuto in media 23.406 euro lordi contro i 48.914 di un lussemburghese, i 41.100 di un tedesco, i 39.858 di un irlandese e i 29.160 di un greco. Dietro gli italiani ci sono i lavoratori di Portogallo (con 17.129 euro lordi), Slovenia (16.282), Malta (16.158) e Slovacchia (10.387).
Secondo uno studio del Codacons dall’introduzione dell’euro (2002) ad oggi, abbiamo perso il 39.7% del potere d’acquisto. La moneta unica avrà anche garantito una bassa inflazione annua (tanto cara alla Germania) tuttavia i percettori di reddito fisso (i più colpiti dal carovita) hanno visto i prezzi dei beni di largo consumo crescere silenti ed i salari restare fermi al palo, immobili ed immutati. Nominalmente, perchè realmente il potere d’acquisto di quelle somme ha accusato una costante erosione del valore estrinseco.
La lentezza economica con cui il gigante "Euro" si muove ha fatto sì che gli effetti non fossero immediati, c’è voluto un lasso di tempo ragguardevole per confrontare il benessere di ieri con quello di oggi. Banche e Stati hanno affinato le politiche monetarie e non si sono commessi più gli errori di una volta, quando la moneta (come accadde nel dopoguerra nella Repubblica di Weimar) perdeva valore ad una velocità così elevata che a distanza di giorni il prezzo del pane quintuplicava.
L’unico strumento che abbiamo per uscire da questo pantano e salvaguardare il ceto medio, sempre più assottigliato e destinato a morire, è la produzione di ricchezza. Non come ci ricorda la Fornero aumentando mobilità e riducendo le protezioni (vedi polemica sull’Art.18), oppure come disse il Presidente del Consiglio Monti: "Non pensate più al posto fisso, perchè pernicioso per i giovani". Quello di cui veramente abbiamo bisogno è che i professori tornino in cattedra e gli imprenditori tornino sul territorio.
Non c’è decreto che possa spingere per legge i ceti produttori di ricchezza a non delocalizzare e ad investire le proprie risorse per accrescere il PIL e sviluppare il territorio. Lavorare in Italia non conviene più, il divario tra lordo e netto è troppo ampio, gli onerosi contributi che versiamo per la quiescienza verranno ripartiti e non capitalizzati. C’è una sfiducia totale nei confronti delle Istituzioni che vorrebbero trattarci come lattanti da accudire in eterno invece che lasciare a briglie sciolte l’estro e le straordinarie capacità del nostro popolo.
Allo stesso modo, fare impresa con oneri fiscali insopportabili, balzelli nascosti, costi per servizi e lavoro troppo elevati rispetto ai ricavi non ha una ratio. Se non fosse per senso d’appartenza ad una comunità e per Orgoglio Nazionale non ci sarebbero altre logiche per cui il mercato debba ancora credere nel Paese Italia.
Quanto dobbiamo scavare nella fossa prima di tornare a crescere? Lo Stato con l’arrivo dei tecnici è diventato ancora più "serio", "ingombrante", presente. Ha acquisito una autorevolezza deleteria per le nostre tasche ed i nostri posti di lavoro. E’ passato l’assunto per il quale con la maggiore leva fiscale metteremo in sesto le finanze pubbliche quando ciò che sta crollando davvero è il tessuto produttivo.
Berlusconi scese in campo da imprenditore, come uomo nuovo proveniente dalla società civile pronto a fare dell’Italia una Spa in attivo. Oggi ciò che ci rimane dello statuto societario sono le Opa francesi sulle nostre imprese ed i pacchetti azionari sul nostro Parlamento detenuti dalla Germania. Chiudendo con uno slogan: "Meno Stato, più Impresa (Italiana)" per tornare attori principali della nostra libertà, economica e politica.
twitter @andrewlorusso
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