In un articolo apparso sul Corriere della Sera la scorsa settimana, una ricercatrice italiana da 12 anni negli USA, pur considerandosi “progressista e radicale”, lamenta l’aperta discriminazione razziale che subisce nella sua università (la Columbia University) perché bianca e quindi “oppressiva”.
A furia di “politicamente corretto” anche chi non ha minimamente idee razziste viene ghettizzato perché bianco e quindi formalmente discriminante rispetto ad una minoranza (nera, ma anche per gusti sessuali come le varie sigle LGBTIQ+) che di fatto impone la propria predominanza.
Succedeva già anche da noi decenni fa, quando a scuola una minoranza obbligava tutti a scioperare e chi dissentiva era automaticamente “fascista” (chi ha vissuto come me il ’68 da destra se lo ricorda benissimo), ma oggi ogni gesto può essere interpretato in modo decontestualizzato e quindi “razzista”, mentre sta crescendo una paura assurda di apparire non solo conformisti, ma in qualche maniera discriminatori anche se non se ne ha assolutamente l’intenzione.
Il predominio di alcune minoranze politiche e sessuali è evidente, dalla cultura alla rilettura della storia, all’abbattimento dei monumenti (negli USA ormai una quotidianità) perché considerati razzisti, alla cancellazione del “Columbus day” colonialista, alla richiesta di sovvenzioni, indennizzi, riconoscimenti culturali, premi tutti che siano però assolutamente “in linea”.
Personalmente non ho nulla contro i gay ma appare evidente – ad esempio – il peso sociale, politico, televisivo, mediatico che questa ed altre minoranze di orientamento sessuale hanno nel dibattito pubblico, dove l’ex discriminato è ora spesso discriminante.
Leggere – tornando al Corriere – che in una delle più prestigiose università del mondo per accedervi agli studenti bianchi è chiesto di scusarsi con i compagni di corso neri per il razzismo di cui sono portatori, oppure che ogni due settimane un bianco deve partecipare a una riunione di White Accountability “responsabilità bianca” trascorrendo almeno due ore per riconoscere le possibili micro-aggressioni verso i neri e chiederne un pentimento.
E quali sarebbero queste mini-aggressioni? «Un lunghissimo elenco di frasi proibite, perché considerate offensive. Per esempio, non bisogna mai chiedere a un compagno di studi da dove viene: può considerarsi un’implicita discriminazione etnica, oppure chiedere il corso di studi perché se lo studente è nero può evocare una piantagione di cotone dove lavoravano i suoi antenati schiavi”.
In parallelo, mentre i bianchi partecipano a queste sessioni di auto-denuncia e pentimento, gli afroamericani si riuniscono nel Black Women o Black Men Safe Space («spazio sicuro»). Si scopre che «È il momento a loro riservato per denunciare le micro-aggressioni di noi bianchi, e mettere sotto accusa la Columbia se non affronta in modo adeguato il privilegio bianco, il razzismo sistemico» perché secondo l’università “il trauma generazionale è quello ereditato da chi discende da schiavi neri”.
Ci sono poi le questioni politiche che hanno avuto anche un largo seguito sui media e discriminazioni anche dal punto di vista religioso, per esempio verso gli ebrei a seguito della crisi di Gaza.
“La regola è che gli ebrei ashkenaziti, di origine est-europea, sono bianchi e quindi oppressori, gli ebrei sefarditi di origine mediorientale hanno invece il diritto a stare nella categoria degli oppressi”.
Quello di Harvard, dove la rettrice Claudine Gay ha dovuto dimettersi per discriminazioni verso studenti ebrei, non è evidentemente un caso isolato.
Ma c’è un altro aspetto che porta ad altri problemi: le conseguenti reazioni a volte violente di chi non accetta tutto questo. Uno dei motivi per cui Trump trova spazio con le sue provocazioni è proprio perché una parte dell’opinione pubblica americana (bianca, ma non solo) si sente discriminata.
A volte immaginiamo che i “wasp” (americani bianchi, anglosassoni e protestanti) siano ancora la maggioranza negli USA ma non è più così, come moltissimi bianchi guadagnano meno dei neri e si sentono defraudati dei sacrifici loro e delle generazioni precedenti. Anche queste sono le radici del vasto bacino elettorale per Trump, che poi trova spazio per episodi come quelli a Capitol Hill. Un motivo in più perché gli USA si sentano sempre più divisi al loro interno, nella politica come nella società.