Dopo quasi un anno da premier Giorgia Meloni si sente più forte e sicura di sé. Con i fatti ha subito chiuso la porta alle scontate polemiche “postfasciste” che ne hanno accompagnato la nomina, ha annacquato (fin troppo) il suo programma economico in chiave post-draghiana raccogliendo ovvi consensi ma anche una “tregua” dalla grande finanza, ha imparato a gestire i contatti internazionali arrivando a tenere una linea da “falco” pro USA e NATO sull’Ucraina, superando anche molte perplessità interne.
Ora che dovrebbe essere arrivato il momento di far emergere finalmente una più netta ed autonoma “sua” linea politica, arriva un problema grosso: i sempre più difficili rapporti con l’Europa.
Da una parte Meloni vorrebbe forse tenere un atteggiamento più rigido con Bruxelles, anche in chiave di contrapposizione e quindi di visibilità elettorale, ma come leader del gruppo “Conservatori e riformisti europei” sa che solo alleandosi al PPE potrà in futuro avere più sponde a Bruxelles e quindi partecipare come forza di maggioranza nella Commissione Europea. Ma il suo successo non può essere ben visto dall’Europa di oggi, che guarda a sinistra e teme i sovranisti di domani, così come da quei paesi che temono l’Italia come possibile rivale.
Per questo oggi l’Italia resiste sul MES (sua unica e vera carta di pressione), ma avrebbe però contemporaneamente bisogno di flessibilità di bilancio – e quindi di accordi – per poter varare riforme fiscali e sociali ben più ampie e significative in “finanziaria”, mentre la BCE – con l’aumento continuo dei tassi – sembra far di tutto per complicare i problemi delle imprese e anche dell’esecutivo italiano sul quale pesa come un macigno il maxi-debito pubblico pregresso. Uno 0.25% in più di interessi da pagare sui debiti di fatto cancella ogni possibilità di spesa in più a beneficio degli italiani. Molte grazie madame Lagarde: certo questa sua politica economica non rilancia l’economia europea né – è dimostrato – blocca l’inflazione.
C’è un altro aspetto del problema: il commissario direttamente coinvolto per le questioni economiche è proprio quello italiano e si chiama Paolo Gentiloni, già esponente PD e quindi oppositore politico all’attuale governo. L’ipocrisia declama che un Commissario Europeo è (o dovrebbe essere) indipendente dai partiti e dalla propria provenienza nazionale, chè le polemiche con Bruxelles “danneggiano l’Italia”, ma il fatto è che nel 2019 Gentiloni fu piazzato proprio dal PD in questo ruolo-chiave all’interno della Commissione.
Oggi che a Roma il PD è all’opposizione, è ovvio un potenziale attrito politico, soprattutto perché proprio Paolo Gentiloni ha tutte le caratteristiche per diventare il potenziale prossimo segretario del PD con il quale ha percorso tutta la sua carriera. Soprattutto se Schlein avesse un possibile infortunio elettorale alle Europee, difficile che dalle parti del Nazareno non si apra una nuova guerra per la segreteria e Gentiloni sa bene di poter essere un potenziale ottimo papabile, soprattutto se sarà riuscito a bloccare Meloni e a renderle la vita difficile.
Dimentichiamoci quindi che possa fornire qualche “aiutino” extra per aiutare il governo o si spenda più di tanto su tematiche care all’Italia (vedi accordi ITA-Lufthansa) malviste in alcune altre capitali europee (Parigi) che difendono da sempre e prima di tutto i loro interessi nazionali. L’Italia va bene solo se tace e subisce.
E’ insomma fatale che la distanza tra governo e commissario si accentui, visto anche che l’Italia ha sulla groppa un deficit mastodontico (cresciuto anche quando Gentiloni era premier a Palazzo Chigi, dovremmo e dovrebbe ricordarselo, perché nessun TG lo ricorda mai!), un PNRR che è difficile da rispettare perché va poi restituito e i tassi sono aumentati in modo enorme grazie alla BCE che così può condizionare o strozzare ogni ripresa. Per questo anche il MES non convince e sullo sfondo c’è sempre il ricatto del potenziale ritorno a quel patto di stabilità che era e resta un obbiettivo ben difficile da raggiungere e soprattutto da mantenere negli anni.