Lascio ad avvocati e giuristi il giudizio se la condanna di Gianfranco Fini a due anni e otto mesi per la vicenda della casa di Montecarlo (ceduta più o meno consapevolmente al cognato) sia stata una sentenza pesante o meno, se sia stata tardiva e/o a rischio prescrizione, se davvero abbia effettivamente accertato la colpevolezza dell’imputato (l’accusa aveva chiesto 8 anni) per lo specifico reato di riciclaggio.
Resta il fatto – e scrivere di queste cose mi lascia una profonda tristezza – che questa vicenda segnò ed ha segnato di fatto la fine politica di chi per molti anni era sembrato il “delfino” di Berlusconi e, ripercorrendo le tappe di questa infinita storia giudiziaria, non resta che prendere atto della parabola di un personaggio politico che seppe sdoganare la destra italiana nel 1994 ma che si trovò a dover sempre condividere la scena con un leader complicato come Berlusconi, il quale ammetteva alleati solo poco più che genuflessi e che in Fini, dopo un primo periodo di cordialità, vide quasi subito un pericoloso “competitor” piuttosto che un suo possibile quanto lontano erede o successore.
Non si può tra l’altro neppure dire che Fini non ebbe il coraggio e la pazienza di attendere, perché la parentesi berlusconiana è stata in effetti lunghissima (e in qualche maniera continua ancora) con vere e proprie occasioni di culto della personalità e pietosi silenzi su infinite situazioni decisamente fuori le righe.
Fini prima si illuse, poi si ribellò, forse non attese abbastanza o dette troppo ascolto ai cattivi consiglieri che soffiavano sul fuoco delle loro rivalità personali – stiamo parlando di una quindicina di anni fa; fatto sta che il vero momento di frattura avvenne subito dopo la “fusione a freddo” tra AN e FI con la nascita di un “Popolo della Libertà” unione di più forze, ma di fatto sotto regime berlusconiano, sopportato da tutti ma amato da nessuno.
Se i due partiti anzichè fondersi avessero dato vita ad una alleanza o a una federazione mantenendo la propria identità formale, forse la storia della destra italiana sarebbe stata decisamente diversa, così come se il piccolo partito “Futuro e Libertà” – voluto da Fini dopo la scissione con Berlusconi – avesse superato lo sbarramento per accedere a Montecitorio nel 2013: mancarono pochi voti, ma furono determinanti.
Ricordo sempre a tutti che la storia non si scrive con i “se” e con i “ma”, anche se certamente la condanna di oggi, al di là dei suoi risvolti pratici che di fatto saranno nulli, lascia su Fini una traccia indelebile che scava anche l’animo di molti italiani che – come me – in lui avevano creduto come esempio di rinnovamento e che proprio anche per questa vicenda si sentirono emarginati e traditi.
Non rinnego certo una mia profonda e lunga amicizia personale con lui che continua e va ben oltre questi fatti, convinto da sempre però che la sua colpa più grave sia stata di non aver capito – anche e soprattutto nel momento del successo – chi della sua “corte” (c’è sempre una corte e “cerchi magici” intorno ai leader) fosse da ascoltare o meno.
Certamente restano a Fini i meriti di aver rotto l’assedio, di essere stato capace di volere e fondare a Fiuggi una Alleanza Nazionale profondamente diversa dal MSI-DN e che con lui (e grazie a lui) seppe raggiungere risultati notevoli e rappresentò una destra ben più moderna e presentabile di prima, così come – soprattutto oggi – resta a Fini il merito di aver saputo ”lanciare” l’allora giovanissima Giorgia Meloni (che volle, ventinovenne, al ruolo di vice-presidente della Camera nonostante fosse alla sua prima legislatura).
Meriti indiscussi, ma rovinati da questa vicenda giudiziaria che comunque lascia su Fini sospetti, recriminazioni e l’ombra di frequentazioni imbarazzanti. Un finale triste, amaro, che Gianfranco avrebbe potuto e dovuto evitare.