Nessuno mi toglie dalla testa che Mario Draghi avesse già deciso di programmare la sua progressiva uscita dal governo il giorno dopo la sua (mancata) elezione a Presidente della Repubblica e che abbia continuato con il motore sostanzialmente “in folle” fino alla scorsa settimana, quando le dimissioni le ha date sul serio approfittando dell’ennesima crisi in casa 5 Stelle.
Dopo le tante speranze in avvio, il suo governo si stava progressivamente esaurendo, così come la pazienza del leader davanti a dispetti quotidiani tra partner, tutti tesi alla rispettiva visibilità. Così, quando Mattarella lo ha rinviato alle Camere, lui – grazie anche ai media che ne hanno rafforzato l’immagine del “buon papà-leader contro i cattivi partiti” – ha giocato con abilità, ma anche da furbetto, per scaricare le colpe sugli altri e in primis quel centro-destra oggi dipinto come un’associazione di traditori.
Ricordato che Draghi ha fatto il premier gratis rinunciando al proprio appannaggio (anche questo va ricordato visto che succede raramente) ho ascoltato e riascoltato il suo discorso al Senato, soprattutto quando chiede ai partiti della sua ex maggioranza “Ma voi ve la sentite di rinnovarvi?”; ma poi non fa votare un documento FI-Lega che dice esattamente questo, facendo mettere ai voti un odg a firma soltanto di un eletto nel PD come Casini, finito nella parrocchia ex comunista dopo innumerevoli contorsioni politiche. Cosa non è questo atteggiamento se non un chiaro segno di voler rompere a destra, ma salvando la propria immagine?
Da sempre un dibattito sulla fiducia viene chiuso infatti con un voto su un documento finale firmato da tutti i leader parlamentari di una maggioranza, non da uno soltanto.
Quindi non è del tutto vero che Draghi sia stato abbattuto da “fuoco amico” quando invece, a voler vedere, il voto al Senato gli ha dato comunque una maggioranza, perché astenersi dal votare non significa voto di astensione (che per regolamento al Senato significa voto contrario). Sembra un gioco di parole ma il regolamento è chiaro, anche se pochi lo conoscono. Così è partita la vulgata che Draghi sia stato abbattuto da quei cattivi sovranisti di Berlusconi & Salvini, mentre il M5S – con Conte causa prima della crisi di governo – è letteralmente sparito di scena.
Grande vittoria d’immagine per il premier cui non è spiaciuto andarsene ora, perché Draghi sa benissimo che l’Italia è in un “cul de sac”, che l’autunno sarà orribile, che i debiti contratti per il PNRR saranno in buona parte da restituire, che non è vero che lo stesso PNRR sia davvero partito bene, finendo invece per finanziare spese di ordinaria manutenzione e poche grandi opere, regolarmente bloccate dai veti M5S, vedi l’inceneritore di Roma.
Draghi furbetto? Certamente non è da premier – dopo una truffa di almeno cinque miliardi per il bonus 110%, la più grande truffa della storia repubblicana – sostenere che “la colpa è dei tecnici”. Che cosa ha fatto Draghi negli ultimi 5 mesi per bloccare questa mega-truffa che adesso lascia in mutande milioni di imprese, condomini e cittadini italiani? Anche perché è stato proprio lo stesso Draghi a scegliersi dirigenti e funzionari “di fiducia” per gestire il PNRR con incarichi e nomine spesso senza concorso.
Si assuma quindi le sue responsabilità.
Draghi è un bravo banchiere, uomo competente e sicuramente rappresentava il meglio sul mercato, ma si è dimostrato anche furbo, così come non c’è dubbio che, politicamente, negli ultimi tempi abbia strategicamente privilegiato il rapporto con Letta ed il PD, lasciando in secondo ordine gli altri alleati. D’altronde, per ricucire, sarebbe bastata qualche sua parola – in sede di replica al Senato – su immigrazione, cittadinanza, flat-tax o qualche altro tema nel cuore di FI o della Lega, invece nulla.
Bisognerebbe riflettere anche su questo, facendo il bilancio di un governo sempre alle prese con un duro periodo di emergenza, ma che negli ultimi mesi è vissuto soprattutto a colpi di bonus per tutto, dallo psicoterapeuta alla benzina, senza una strategia economica o ecologica precisa.
Tante parole di “transizione ecologica” – per esempio – ma nulla di chiaro sui gassificatori, il nucleare, le priorità, le riforme, né tantomeno il coraggio di chiedere sacrifici veri rimandando le castagne bollenti a future mani altrui.
Certamente è molto grave che l’Italia si fermi proprio adesso su temi e riforme che molto faticosamente venivano avanti, ma – pensiamoci – quelle riforme avrebbero davvero resistito all’impatto parlamentare?
Draghi ha indubbiamente ben manovrato per arrivare al “dopo di me il diluvio”, soprattutto riuscendo a gettare la croce sul centro-destra che così ne esce “colpevole” agli occhi di una parte dell’opinione pubblica, esattamente come voleva il Partito Democratico, anche se il costante calo di appeal del premier sottolineava che i nodi stavano venendo al pettine.
Ottima comunque la sua strategia di immagine: “pro Draghi” si sono mossi tutti, dal Vaticano a Confindustria, da Bruxelles ai sindacati, dalle associazioni delle casalinghe al sempre più claudicante Joe Biden.
“Draghi Santo subito”: la beatificazione è in atto, il seggio a vita al Senato lo premierà presto e comunque Super Mario è stato capace di passare la mano al momento giusto. Anche questo è un merito, il tempismo in politica è sempre un grande valore, soprattutto quando tempi straordinariamente duri si avvicinano oscuri all’orizzonte.