La decisione raggiunta durante lo scorso Consiglio europeo di concedere ad Ucraina e Moldavia la candidatura per l’ingresso di questi stati nell’Unione ha suscitato dichiarazioni compiaciute da parte dei ministri che l’hanno decisa con i conseguenti toni entusiastici dei media mainstream.
Anche i veti annunciati dall’Ungheria e, almeno in un primo tempo anche dall’Austria, sono spariti.
L’Austria non l’ha esercitato e Orban, con una tradizionale mossa di diplomazia, si è assentato nel momento del voto per non essere responsabile di ciò che giudica un errore.
È pur vero che poi ha posto il veto sulla decisione, annunciata dalla Commissione e sposata dal Consiglio, di uno stanziamento straordinario di 50 miliardi di euro a favore dell’Ucraina ma ha dichiarato di essere pronto a togliere il suo diniego se verso l’Ungheria riprenderà l’erogazione dei 20 miliardi di euro sospesi con l’accusa che il Paese non stia rispettando tutte le procedure democratiche previste dai regolamenti comunitari.
Che l’Ucraina ricevesse proprio ora il via libera alla candidatura era quasi scontato poiché, mentre il Congresso americano sta bloccando le erogazioni a favore di Kiev promesse da Biden, Bruxelles voleva lanciare un segnale simbolico a Zelensky, confermando così il sostegno europeo nella guerra contro la Russia. Se ciò non fosse avvenuto, sarebbe stato un brutto colpo sia per il morale degli ucraini sia per l’autorevolezza del loro governo.
Aperta quindi la candidatura, è ovvio che, come dimostra la Turchia (in attesa da più di venti anni), essere candidati non significa automaticamente che l’ingresso nell’Unione si realizzi. Tante sono le condizioni necessarie, sempre che si vogliano rispettare le regole in vigore dettate dagli “acquis communautaire”. A meno che, come annunciato da alcuni leader di vari Paesi europei, per l’Ucraina non si vogliano fare eccezioni e la si faccia entrare nel concerto europeo anche in mancanza di condizioni già obbligatorie per tutti gli altri.
Non va dimenticato, comunque, che un possibile ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea non sarebbe il solo poiché suonerebbe come una grave offesa politica se gli stati balcanici da anni in attesa non fossero ammessi in contemporanea. Si parla quindi di una possibile futura Unione Europea di ben 36 Paesi membri.
Assumiamo comunque con beneficio di inventario la decisione degli scorsi giorni e valutiamo cosa significherebbe, nella realtà e di là dalle motivazioni contingenti, l’ingresso di questi Paesi nell’Unione Europea.
Con i Trattati attualmente in vigore, con il bilancio europeo e le procedure vigenti se questo nuovo allargamento si realizzasse ciò costituirebbe un disastro per tutta l’Unione e metterebbe a rischio addirittura la sua stessa sopravvivenza. Immaginare, come fanno alcuni, che i problemi saranno superabili con l’eliminazione del diritto di veto e l’instaurazione del voto a maggioranza è una ingenuità irrealizzabile o, qualora si procedesse, un grave errore da cui tutti i sinceri democratici europei preferirebbero astenersi.
Un voto a maggioranza è cosa normale in una istituzione democratica, ma l’Unione Europea di oggi è tutt’altro. L’organo quasi-esecutivo, e cioè la Commissione, è composto da membri che non hanno mai ricevuto una legittimazione popolare né diretta né indiretta poiché proposti da esponenti di governo che lo decidono a porte chiuse. L’unico organo frutto di un suffragio popolare è il Parlamento Europeo ma il suo potere è fortemente limitato e a scarsi, se non nulli, i mezzi per influire sulle scelte della Commissione.
Tanto meno del Consiglio, organo sovrano puramente inter-governativo. Si conoscono progetti, più volte formulati, di una Europa a più velocità (o a cerchi concentrici) ma si tratta di qualcosa che è, per oggi, del tutto politicamente impossibile. Ben diverso sarebbe lo scenario se l’Unione Europea sapesse trasformarsi in una organizzazione di tipo federale con competenze ben definite e suddivise tra il centro e gli Stati membri. Purtroppo, per quanto tale soluzione sarebbe auspicabile e necessaria, le condizioni per arrivare a questo punto sono attualmente assenti in tutto il continente.
L’ingresso, quindi, di nove nuovi Stati non farebbe che peggiorare la inefficienza delle istituzioni europee, mettendo inoltre a rischio la stessa sopravvivenza dell’esistente. Non ci sarebbe, infatti, da stupirsi se, in una Europa gigante ma raffazzonata, aumenterebbero i sentimenti antieuropeisti che sempre più trovano spazio tra le popolazioni di tutti i Paesi attualmente membri, compresa l’Italia.
Il problema più grande che ci si troverebbe di fronte sarebbe poi quello economico. La scorsa estate, la Commissione Europea ha stimato, certamente calcolando in modo riduttivo, che l’eventuale ingresso di questi nuovi Stati graverebbe sul bilancio europeo per almeno 257 miliardi di euro, seppur suddivisi in sette anni.
L’ingresso della sola Ucraina assorbirebbe 186 miliardi e di questi ben 97 per la sola politica agricola comune (PAC). Attualmente, il Paese che più riceve finanziamenti per l’agricoltura è la Francia che ottiene 72 miliardi.
A bilancio costante (mettendo in conto che un eventuale aumento del bilancio comunitario sarebbe pagato soprattutto da Germania, Francia e Italia e che ciò è quasi sicuramente impossibile considerata la crisi attuale) per fare spazio a Kiev gli altri Paesi membri dovrebbero rinunciare in media a circa il 20% di quanto attualmente ricevono da Bruxelles.
Per fare esempi concreti, i contributi agli agricoltori francesi dovrebbero scendere da 72 a 57 miliardi, la Spagna da 52 a 41, la Germania da 47 a 37, la Polonia da 34 a 27 e la Romania da 22 a 17. Anche l’Italia, che oggi ottiene 43 miliardi, dovrebbe accontentarsi di 34 miliardi di euro.
Immaginiamo la felicità di questi agricoltori europei e le conseguenze per le loro capacità produttive, tutto per favorire quelle dei loro colleghi (e concorrenti) ucraini. Come dimostrano le reazioni degli autotrasportatori polacchi e cechi che hanno bloccato al confine i camion ucraini, i problemi per le economie dei Paesi già membri non si limiteranno al solo settore agricolo.
Naturalmente, i giocondi rappresentanti governativi che auspicano un veloce ingresso nell’Unione dell’Ucraina e qualche esponente confindustriale europeo fantasticano su quello che sarà la futura “ricostruzione” di quel Paese e anche il nostro governo, desideroso di mettersi in prima fila come amico della marionetta impazzita di Kiev ha già organizzato un incontro, sbandierato come importantissimo, tra rappresentanti della nostra Confindustria e sedicenti rappresentanti dell’imprenditoria e del governo ucraini.
Purtroppo, cosa e come sarà l’Ucraina alla fine della guerra è un punto di domanda cui nessuno è in grado di rispondere ma, comunque sia il futuro di quel Paese e del suo attuale governo, non bisogna dimenticare che nella migliore dell’ipotesi gli spazi per le nostre imprese dovranno passare sotto un giogo sannitico manovrato da altri.
Infatti, già nel Luglio 2022, e quindi pochi mesi dopo l’inizio della guerra, “l’amico” Zelensky ha firmato un MOU con la più grande società finanziaria del mondo Blackrock, guarda caso americana. Con quell’accordo le assegnava il compito di supervisionare e coordinare proprio quella ricostruzione per cui tanti, illudendosi, sbavano. Per completare il quadro, pochi mesi dopo quella firma ne è seguita un’altra con una seconda società americana: la banca J.P. Morgan. Quest’ultima si occuperà del passaggio e della gestione di tutti i finanziamenti internazionali, pubblici e privati, destinati all’Ucraina.
Chi conosce la realtà di quel Paese dalla sua indipendenza ad oggi e sa come vanno le cose nel mondo sa anche che, corruzione locale permettendo, quando la possibile ricostruzione dovesse cominciare, a fare la parte del leone saranno naturalmente gli americani e, subito dopo di loro per vicinanze storico/culturali/belliche arriveranno i polacchi. All’Italia, come già successe in Kosovo, toccherà sostenere una quota parte dei costi e raccattare le briciole che la generosità altrui deciderà di concederci.