Tra un mese saranno due anni da quando la Russia ha invaso il territorio della repubblica ucraina. In realtà un conflitto era iniziato diversi anni prima ed esattamente nel 2014 anche se, magari volutamente, qualcuno tende a dimenticarlo.
Fu l’anno in cui un colpo di stato rovesciò con l’aiuto più che evidente di alcuni Paesi occidentali il governo legittimo (così giudicato dall’OCSE) del presidente Yanukovich, giudicato filorusso e non filoeuropeo.
Cominciò allora la mattanza di civili e di militari morti sotto i bombardamenti ma, allora, la maggior parte di loro fu uccisa dalle artiglierie dell’esercito ucraino che bombardavano incessantemente l’area secessionista delle sedicenti repubbliche di Lugansk e Donetsk. Fu, invece, dal febbraio 2022 che cominciarono i lanci di missili e droni russi sulle città ucraine.
Per verità storica è necessario ricordare che la conflittualità contro i secessionisti avrebbe potuto chiudersi già alla fine dello stesso 2014 o, al più tardi, all’inizio del 2015. Infatti in quel periodo si tennero a Minsk due incontri, uno a seguito dell’altro, che si conclusero con l’accordo di tutte le parti per cessare le ostilità in cambio di alcune modifiche costituzionali dell’Ucraina e la possibilità di continuare ad usare anche la lingua russa nelle regioni che lo desideravano.
Presenti e garanti di quanto concordato erano gli emissari del governo di Kiev, i rappresentanti delle sedicenti repubbliche secessioniste, la Russia, la Germania e la Francia.
Peccato che, nonostante l’intesa sottoscritta, niente di ciò che fu deciso venisse poi messo in pratica. Solo a distanza di tempo, grazie all’ammissione fatta in pubblico dalla cancelliera Merkel e dal presidente francese Hollande, si è scoperto che sia gli ucraini sia i due Paesi europei avevano firmato quegli accordi sin dall’inizio con l’intenzione di non attuarli, bensì con l’unico scopo di guadagnare tempo per meglio e più armare l’esercito ucraino.
Conseguenza: dal febbraio 2022 quella che era nata come una guerra civile si è trasformata in una guerra tra due (almeno formalmente) stati sovrani. A partire da quel giorno sono morti altri civili e, sembrerebbe, più di centomila soldati per parte.
Nel suo recente viaggio a Davos il presidente Volodymyr Zelensky ha affermato di essere disposto ad intraprendere una iniziativa per porre fine alla guerra con la mediazione della Cina ma senza la presenza della Russia.
A parte il ridicolo di una posizione per la quale si vorrebbe negoziare una pace tra due contendenti in assenza di uno dei due, le condizioni che Zelensky vorrebbe porre (i famosi dieci punti) sono quelle che potrebbe dettare chi stia vincendo sul campo di battaglia, cosa che agli occhi di tutti appare inverosimile per la parte ucraina.
Zelensky sembra anche dimenticare che lui stesso ha voluto una legge che condannasse come traditore chiunque proponesse di negoziare con il nemico fino a che quest’ultimo fosse ancora occupando una parte dell’Ucraina. Proponendo una negoziazione proprio ora sta forse comportandosi da traditore?
Naturalmente a Davos ha ricevuto, almeno ufficialmente, plauso consenso e tante promesse di nuove armi in arrivo. Purtroppo per i morti che continueranno ad aumentare ciò significa accettare l’idea che la guerra dovrà continuare ancora molto a lungo e il Paese subirà altre e nuove distruzioni.
Se si trattasse di un racconto poliziesco con omicidi ci si chiederebbe sempre chi è o chi sono gli assassini e se eventualmente esistono dei mandanti. Trattandosi invece di una vera e propria guerra possiamo constatare che gli assassini sono tanti ma che, nel caso specifico, sono evidenti anche i mandanti.
Chi ci aiuta a identificare questi ultimi senza lasciarci alcun dubbio non è un qualunque personaggio filo-russo bensì il signor David Arakhamia che, guarda caso, è il capo parlamentare del partito politico di Zelensky, “Servitore del popolo”, e anche capo della delegazione ucraina che nel marzo 2022 (cioè nel mese immediatamente successivi all’inizio dell’ostilità e mentre le truppe russe stavano puntando su Kiev) partecipò ad Istambul, con la negoziazione di Erdogan, al tentativo di chiudere immediatamente la guerra appena iniziata.
In una intervista da lui rilasciata alla televisione ucraina “1 + 1” alla fine dello scorso novembre Arakhamia ha riassunto la posizione dei russi in quella circostanza: “Essi hanno sperato praticamente fino all’ultimo momento che noi accettassimo la neutralità. Quello era il loro obiettivo principale. Erano pronti a finire la guerra se noi avessimo accettato la neutralità, come all’epoca la aveva la Finlandia, e se noi avessimo assunto l’obbligo di non entrare nella Nato”. I russi avrebbero anche accettato che Kiev entrasse nell’Unione Europea.
L’allora ministro degli esteri turco Cavusoglu fece una dichiarazione in cui affermava che “Oggi è stato raggiunto il più significativo progresso nei negoziati in corso”. Non smentito, il parlamentare ucraino aggiunse anche che i “consiglieri per la sicurezza” di Washington, Londra, Varsavia e Berlino erano costantemente informati degli argomenti discussi durante la negoziazione.
A una domanda precisa dell’intervistatore sul perché, nonostante ad Istanbul tutto sembrasse procedere verso la pace le trattative furono interrotte rispose che, appena dopo il loro rientro a Kiev, l’allora Primo Ministro britannico Boris Johnson arrivò nella capitale ucraina imponendo di non sottoscrivere nessun accordo con i russi poiché “noi continueremo, molto semplicemente, a fare la guerra”. Va notato che durante tutta l’intervista il parlamentare ucraino non fece mai alcun accenno al presunto massacro di Boutcha nonostante la ragione ufficiale per interrompere le negoziazioni fosse il “massacro della popolazione civile” attribuita alle truppe russe a Boutcha.
L’intervista trasmessa in tutta l’Ucraina consenti al sincero Arakhamia di permettersi una vanteria personale: seguendo le istruzioni ricevute da Kiev “Noi abbiamo compiuto la nostra missione di guadagnare tempo prolungando la discussione sul punto 8 (dei dieci in discussione – N.d.A.). I russi se ne sono andati abbastanza rilassati e noi abbiamo potuto continuare nella direzione della soluzione militare”.
L’intesa avrebbe dovuto prevedere un immediato successivo incontro tra i ministri degli esteri russo e ucraino per definire tutti gli altri punti necessari (quali il futuro status di Crimea e Donbass) tanto che il capo negoziatore russo Medinsky dichiarò che il trattato di pace sembrava essere vicino. Proprio per quel motivo, il vice ministro della Difesa russo fece sapere che Mosca aveva deciso di “ridurre drasticamente l’attività militare in direzione di Kiev e Kharkiv” al fine di “aumentare la fiducia reciproca per i futuri negoziati… e firmare un accordo di pace con l’Ucraina”.
Le dichiarazioni piuttosto scioccanti del capo delegazione ucraino rendono evidenti alcuni punti:
- Nel periodo in cui avvenivano i colloqui i russi stavano vincendo sul campo di battaglia e stavano puntando verso Kiev ma arrestarono le loro operazioni militari per favorire i negoziati.
- Il fatto che, secondo le parole di Arakhamia, i russi fossero disponibili a chiudere subito le ostilità se gli ucraini avessero rinunciato a entrare nella Nato conferma che, almeno all’inizio delle ostilità, Mosca non aveva alcuna intenzione di occupare l’intero Paese ma aveva come obiettivo principale quello da loro sempre dichiarato: impedire la possibilità di trovarsi i missili Nato sulla porta di casa.
- Se non ci fosse stato l’intervento di Boris Johnson ad impedire la fine della guerra, è altamente probabile che si sarebbero risparmiate centinaia di migliaia di vittime e il Paese non sarebbe stato ridotto in rovina come lo è oggi. Chiunque capisce di politica sa che la “missione” di Boris Johnson non può nemmeno minimamente essere stata una iniziativa personale non concordata con gli altri maggiori “dante causa”. In seguito si è anche saputo che Johnson non si limitò a formulare un semplice invito ma garantì l’apertura di una gigantesca linea di credito anglo-americana ed europea pagabile parzialmente in armamenti. Ovviamente, in cambio l’Ucraina doveva impegnarsi a continuare la guerra con la Russia e fornire i necessari combattenti sul campo.
In base a quella decisione concordata con il britannico fu immediatamente approvata una legge che impediva il passaggio della frontiera a tutte le persone in età di combattimento. Infatti, come era successo a tanti giovani russi che volevano evitare l’arruolamento, molti ucraini stavano cercando di lasciare il Paese per non essere mandati in prima linea.
È risaputo che la popolarità di Zelensky è attualmente in caduta libera, non solo nel suo Paese ma anche tra i suoi mandanti occidentali e, come ammesso dalla nostra presidente del Consiglio, i supporter dell’Ucraina sentono “un po’ di stanchezza”.
In teoria, il 31 marzo del 2024 dovrebbero tenersi nuove elezioni presidenziali ma è già stato annunciato che non sarà possibile tenerle giustificandosi con il fatto che una parte importante della popolazione è oggi fuori dal Paese e che nei territori occupati dai russi e sui campi di battaglia sarà evidentemente impossibile aprire dei seggi elettorali. La cosa strana è che lo stesso Arakhamia, sempre nell’intervista, ha annunciato che sarebbe necessario organizzare un referendum nazionale sulle eventuali concessioni territoriali a favore della Russia in cambio della pace.
È però spontaneo domandarsi a questo punto come potrebbe essere possibile una consultazione referendaria mentre si giudica impossibile organizzare le elezioni presidenziali. A pensare male e considerata la possibile sconfitta sul campo intravista anche dagli esperti militari occidentali, uno pseudo-referendum potrebbe consentire a quello stesso governo che ha decretato la morte dei propri connazionali e la distruzione dell’intero Paese di scaricare la responsabilità di una sconfitta vergognosa sulle spalle dei semplici cittadini salvando così l’immagine degli attuali governanti.
*già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali