Di là dalle più o meno roboanti affermazioni e richiami al diritto internazionale e al rispetto dei diritti umani, ciò che davvero ha sempre mosso e muoverà gli Stati nella loro politica internazionale è il perseguimento del proprio interesse. Nel migliore dei casi il “diritto” è complementare, nella maggior parte delle volte rappresenta un alibi, più o meno credibile secondo le circostanze, per giustificare le azioni intraprese.
Purtroppo, o per fortuna, non sempre i politici di turno indipendentemente dalle intenzioni riescono a tutelare gli interessi cui mirano, e anche quando sembrano avere successo occorre distinguere tra i vantaggi a breve termine e quelli a lungo termine. La ragione sta nel fatto che la politica internazionale non è come il gioco degli scacchi, ove ogni componente ha un suo ruolo immutabile e ben definito.
Nel mondo reale non solo “re” e “regine” possono cambiare inaspettatamente il loro modo di muoversi, ma lo fanno persino i “pedoni”. Gli amici possono essere contemporaneamente anche nemici su altri obiettivi e viceversa. Se a ciò si aggiunge che le variabili sono sempre infinite e non tutte dipendono dagli attori in campo, il quadro che ne esce è complicatissimo.
I politici avveduti non solo hanno innanzitutto il dovere di ben identificare gli interessi del proprio Paese, ma devono anche considerare quali siano le ambizioni e gli interessi degli altri soggetti. Ovviamente le cose sono estremamente complicate e gli errori, inaspettati, possono sempre capitare.
Se si guarda all’interesse nazionale degli Stati Uniti, non è possibille che costatare che la (attualmente) più grande potenza mondiale dopo il 1991 è stata in grado, per almeno due decenni, di esercitare una forte ed unica egemonia su tutto il globo, ed è comprensibile che cerchi di mantenere questa sua posizione preminente. Purtroppo per loro, a partire più o meno dal 2000, gli equilibri mondiali hanno cominciato a cambiare ed è sotto gli occhi di tutti che l’ascesa economica e politica della Cina sia in grado di poter insidiare quella posizione.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica gli Usa si erano convinti che il nemico di un tempo, l’Unione Sovietica diventata oramai solo Russia, potesse entrare nel novero dei Paesi ridotti a vassallaggio più o meno “felice”. Qualcuno a Washington aveva persino immaginato di poter guardare a quel Paese, immenso per dimensioni, come una prateria ove le grandi imprese americane avrebbero potuto scorrazzare a proprio piacimento.
L’ascesa al potere di Vladimir Putin in una Russia già incamminata verso lo sfacelo ha ridimensionato quei progetti. È pur vero che, almeno all’inizio, il nuovo autocrate chiese di poter essere associato al mondo occidentale, e cioè agli Stati Uniti, ma pretendeva di farlo giocando di pari a pari. Tale richiesta per quella che in quel momento era una potenza vittoriosa suonò blasfemia. Per ridimensionare quelle pretese furono accentuate le operazioni di penetrazione “amichevole” già intraprese in tutti quei Paesi che avevano fatto parte dell’impero comunista e, ove necessario, furono aiutate alcune “rivoluzioni colorate”.
Fin dal 1997 l’ascoltato politologo statunitense Brzezinski aveva suggerito che, per garantire la continuazione del predominio americano, fosse necessario poter esercitare un qualche controllo sui Paesi dell’Asia centrale e che per farlo sarebbe stato utile e addirittura indispensabile garantirsi una certa egemonia sull’Ucraina.
Nel frattempo ai politici americani cominciava ad essere evidente che il possibile nemico del futuro avrebbe potuto diventare la Cina, forte di più di un miliardo di persone e di un’economia in rapida e fortissima ascesa. Qualcuno a Washington pensava che lo sviluppo dell’economia capitalista cinese avrebbe di per sé portato quel Paese ad allargare le libertà democratiche interne e la democrazia, con le sue tante voci spesso discordanti, è comunque e sempre un interlocutore più docile di un sistema autocratico potenzialmente ostile. Che si trattasse di una illusione lo ha dimostrato la storia degli ultimi quindici anni poiché, anziché democratizzarsi, la Cina si è incamminata verso un sistema sempre più chiuso e repressivo.
Come c’era da spettarsi conoscendo la storia e la cultura millenaria di quel Paese, a Pechino si tornò ad auto-percepirsi come il “Regno di mezzo”, che non solo non accetta altri padroni ma, ove possibile, tende a diventarlo. L’ esigenza di garantire contemporaneamente l’alimentazione di tutta la popolazione e della crescente e affamata economia ha portato i cinesi a espandere la propria presenza, spesso asfissiante, in tutti quei Paesi del mondo che potevano tornare utili. Africa, Sud America e Sud Est asiatico hanno visto moltiplicarsi finanziamenti e imprese cinesi, ma l’Europa e gli stessi Stati Uniti non sono rimasti esenti dall’”invasione” dei figli di Pechino.
Ancora prima di Donald Trump i politici americani capirono che la crescita della Cina avrebbe potuto diventare il più grande competitor del futuro contro la preminenza egemonica americana sul mondo. A questo punto saggezza avrebbe voluto che, proprio per condizionarne tempi e modi dello sviluppo, diventasse utile cambiare il proprio approccio verso Mosca ed allacciare con quest’ultima (e con la sua abbondanza di materie prime) una alleanza virtuosa in funzione anti-cinese. Al contrario gli americani fecero qui il primo grave errore di valutazione. Conoscendo la storica inimicizia tra russi e cinesi qualcuno immaginò che comunque una alleanza vera tra Mosca e Pechino sarebbe stata impossibile e si poteva quindi continuare nella politica precedentemente impostata di impegnarsi, discretamente e contemporaneamente, contro entrambi.
D’altra parte gli Stati Uniti avevano anche un’altra preoccupazione che li spingeva a non guardare alla Russia con particolare benevolenza: impedire quel processo di avvicinamento e collaborazione tra Mosca e i Paesi dell’Europa occidentale che sembrava essere iniziato.
L’Europa era sì un nano politico (anche grazie alle attenzioni tutt’altro che benevole di Washington e il boicottaggio dapprima della Gran Bretagna, poi della Polonia), ma restava pur sempre una importantissima realtà economica mondiale. Se i Paesi più grandi dell’Europa occidentale (Francia Germania e Italia) avessero continuato nella loro sempre più stretta collaborazione con la Russia, l’unione di capitali e know how da un lato e le materie prime e la voglia di crescere dall’altro, il peso economico di quell’area del mondo sarebbe potuto ulteriormente aumentare. Ciò avrebbe potuto ben presto trasformare l’Europa in una nuova realtà magari anche politica che, a questo punto, poteva trattare con gli Stati Uniti da pari a pari. Che fine avrebbe fatto la mano egemonica statunitense sul Vecchio Continente?
Almeno a partire dalla fine della Prima guerra mondiale una vicinanza troppo stretta tra Mosca e Berlino (e in seguito Parigi e Roma) era sempre stato un incubo per i politologi americani. Nel periodo della Guerra fredda, nonostante le aperture ad est di De Gaulle, Brandt, Schmidt e alcuni governanti italiani, una qualche collaborazione economica tra costoro e l’URSS non preoccupava più di tanto gli americani poiché l’ombra oscura del potere sovietico comunista era sufficiente per non spingere gli europei ad una collaborazione più stretta.
La caduta del comunismo tuttavia ha fatto sparire tra i politici europei quello spauracchio più che giustificato e gli intrecci economici tra il Vecchio e il Nuovo continente avrebbero potuto, passo a passo, diventare meno indispensabili. Fu quindi indispensabile per la politica e gli interessi americani impedire quella congiunzione economica, simbolicamente rappresentata dai gasdotti South Stream e North Stream che stava avvicinando Europa e Russia.
È anche con quell’obiettivo (ma non solo quello) che si spiega la volontà americana, aiutata da polacchi, baltici e britannici, di “contenere” la Russia e mettere una parola fine a quel processo in corso. L’allargamento della Nato promesso anche a Georgia e Ucraina e la continua intromissione americana nella politica di Kiev fino all’organizzazione del colpo di stato del 2014 ha creato le necessarie premesse per una successiva rottura tra Mosca e le maggiori capitali europee.
L’invasione russa dell’Ucraina del 2022 è stata il punto di arrivo di quella politica americana ed è ben presto diventata un ostacolo insormontabile per ogni futura collaborazione degli europei con i russi. Oramai lo resterà per lunghissimo tempo, rappresentando un successo indiscutibile per la continuazione dell’egemonia americana sull’Europa.
Purtroppo, come si usa dire, “non tutte le ciambelle riescono col buco” e, contrariamente alle attese di alcuni osservatori americani la Russia, isolata dal mondo occidentale, si è buttata nelle braccia di Pechino. Superando le remore storiche secolari Putin e Xi Jinping si sono già incontrati ben 42 volte, arrivando a lodarsi pubblicamente l’un l’altro quali “il migliore amico”.
Nonostante una certa diffidenza reciproca continui a persistere, nel 2013 i due hanno annunciato una “partnership strategica globale”. Conseguenza: alla metà del 2010 il loro interscambio corrispondeva a poco più di 78 miliardi di dollari, ma nel 2023 il commercio tra Russia e Cina ha superato i 230 miliardi di dollari. È bene precisare che tale cifra riguarda solo gli scambi diretti, mentre altre decine di miliardi di dollari sono pur sempre commercio bilaterale che però passa attraverso la Kirghisia, la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti e altri Paesi. La posizione cinese verso la guerra in Ucraina e i legami commerciali con i nemici dell’occidente (vedi Iran) sono la dimostrazione che l’aspetto economico non esaurisce la relazione. Pur se sia Mosca che Pechino, di là dalle dichiarazioni formali, perseguono ciascuna il proprio esclusivo interesse, la loro vicinanza ha una giustificazione condivisa e cioè l’anti occidentalismo e soprattutto l’anti americanismo.
La Guerra fredda è finita con il crollo della “Cortina di ferro” e con essa la contrapposizione ideologica. Che la lotta tra comunismo e liberalismo fosse anche un alibi per coprire altri interessi fu però già dimostrato anni orsono quando Nixon, Kissinger, Mao Zedong e Zhou Enlai si accordarono in funzione antisovietica dimenticando le loro divergenze ideali. Oggi stiamo assistendo ad un nuovo bipolarismo, non più centrato sulla contrapposizione ideologica di comunismo e liberalismo, ma sullo spietato perseguimento dell’egemonia mondiale. La lotta presunta tra “democrazie” e “autoritarismo” è solo la versione moderna di ciò che fu.