Durante una tranquilla e amabile conversazione di pochi giorni fa con un nostro diplomatico, ho espresso i miei dubbi affermando che la guerra intrapresa dalla Russia in Ucraina fosse stata provocata, probabilmente in modo voluto, da noi occidentali. Il mio interlocutore ha immediatamente reagito sostenendo che quanto io stavo affermando non era che l’assimilazione della propaganda russa, diffusa a piene mani in Italia e in tutta Europa. In altre parole mi accusava, seppur amichevolmente, di esserne io stato vittima, assieme alle migliaia di italiani che nutrivano i miei stessi dubbi.
Che un nostro diplomatico lo sostenesse non deve stupire se si pensa che questa è la linea ufficiale del nostro governo, e un rappresentante del nostro ministero degli Esteri ha il dovere di rispecchiare il credo governativo. Più grave sarebbe invece se la mia controparte credesse davvero che l’azione aggressiva di Mosca sia frutto di una volontà espansionistica e non un ultimo tentativo di auto-difesa. Tuttavia non ci sarebbe da stupirsi se chi sostenesse la sola responsabilità russa fosse un cittadino qualunque che legge la nostra stampa principale e segue le notizie monocordi di radio e TV. Altra cosa è se chi della politica internazionale ne ha fatto professione e fosse veramente così cieco, o prevenuto, da voler negare i fatti storici che hanno preceduto i tragici eventi dei nostri giorni.
Trovo quindi necessario rifare un po’ di storia su quanto è successo in Ucraina dal momento della sua indipendenza nel 1991.
Esperienza personale
Innanzitutto partirei da un’esperienza personale. Già nei primi anni Novanta e per qualche anno a seguire feci diversi viaggi di lavoro a Kiev. Ciò che notai fu la presenza di diverse ONG, soprattutto americane, che organizzavano in loco “corsi sulla democrazia” per funzionari, amministratori locali e giovani politici “promettenti”. Questi ultimi erano, a volte, invitati negli USA a spese degli organismi invitanti per “conoscere come fosse organizzata la democrazia americana”. Tali viaggi gratuiti duravano circa un mese e chiunque può immaginare quale fosse lo scopo “promozionale” di queste “conoscenze”. Di per sé niente di male, ma è ovvio che in questo modo si costruiscono amicizie che marcano la vita futura di un politico, soprattutto se costui ha appena lasciato un sistema che impediva di fatto i viaggi all’estero verso i Paesi occidentali. Quanto all’implementazione della democrazia, constatai che, mentre formalmente se ne rispettavano le regole, una classe di nuovi ricchi stava prendendo il potere reale e senza il loro aiuto nulla poteva concludersi. Anche la corruzione, minima (o invisibile) ai tempi della vecchia Unione Sovietica, si stava estendendo ovunque nei gangli vitali del Paese. E continua anche nei nostri giorni di guerra.
Nel frattempo, Zbigniew Brzezinski, il Consigliere per la politica estera del Presidente Lyndon B. Johnson dal 1966 to 1968, per la Sicurezza Nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter dal 1977 al 1981 e poi docente di politica estera alla John Hopkins University, scrisse nel 1997 un libro, The Grand Chessboard- American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, nel quale sottolineava, tra l’altro, come un “controllo” dell’Ucraina da parte degli States fosse da considerarsi indispensabile per “visionare” tutto il centro-Asia e garantire che nessuno in Europa o in Asia potesse emergere come Paese dominante. Consentirlo, avrebbe insidiato l’egemonia mondiale americana. L’idea principale era che, con qualunque mezzo necessario, era da evitare un possibile avvicinamento tra la Russia e l’Europa poiché ciò avrebbe insidiato l’egemonia americana sul vecchio continente. Brzezinski non era uno studioso qualunque ma era, invece, una voce molto influente negli USA sulla questione delle relazioni internazionali. Lui aveva ipotizzato un “piano per l’Europa” che prevedeva l’espansione della NATO e un “Occidente molto forte”. Anche la Rand Corporation (con più rapporti consegnati a Washington e firmati, tra gli altri, da James Dobbins, il Professore Howard J. Shatz e l’analista politico Ali Wyne) era sulla stessa linea e chiedeva che la nuova Russia dovesse essere “contenuta” con metodi simili a quelli già in vigore durante la Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica.
La guerra del 1999 contro la Serbia, notoria amica di Mosca, fu funzionale a questa strategia, e approfittò di un periodo di confusione e debolezza nel governo russo. L’indipendenza del Kossovo, imposta dopo la resa di Belgrado, consentì agli americani di stabilire in quella regione la più grande base militare americana di tutto il continente. Una cosa voluta conseguenza dell’altra?
Uno Stato etnicamente orientato
In Ucraina, intanto, si stava alimentando una crescente divisione tra l’etnia originaria russa (circa il 25/30% della popolazione) prevalente nell’Est, e la maggioranza prettamente ucraina che abitava il centro e l’Ovest del Paese. Motivi psicologico-storici reali esistevano per questi sentimenti: la prepotenza del sistema comunista moscovita che aveva causato l’Holodomor (carestia dovuta alla collettivizzazione delle terre voluta da Stalin che causò milioni di morti) e la negazione di una cultura ucraina indipendente da quella russa perseguita durante la sovietizzazione. In seguito la nuova Costituzione, voluta dai sostenitori pro-Europa, avrebbe sancito che le minoranze etniche non prettamente ucraine diventavano, di fatto, cittadini di serie B e la lingua russa sarebbe stata considerata lingua straniera, come il francese o il tedesco.
Le elezioni presidenziali del 2004 portarono alla vittoria del fronte considerato filo-russo ma fu contestata la legittimità della consultazione. Ne scaturì allora una protesta popolare (definita rivoluzione Arancione) che portò all’invalidazione del risultato: la ripetizione delle votazioni dette la vittoria al candidato filo-occidentale: Viktor Juščenko. Fu tra le prime delle cosiddette “rivoluzioni colorate” che colpirono in quegli anni diversi Stati post-sovietici. Il fenomeno non sfuggì all’attenzione di Mosca che cominciò a capire che gli “aiuti” americani che si stavano ricevendo non erano del tutto “disinteressati”, anche perché sempre più ONG occidentali si stavano installando pure sul territorio russo. Il sospetto che prese sempre più piede tra gli analisti moscoviti fu che la contestazione delle elezioni del 2004 avesse avuto una qualche spinta da parte di potenze straniere.
Lo stesso anno fu quello in cui perfino i Paesi Baltici entrarono nella NATO, suscitando ulteriori preoccupazioni al Cremlino. La distanza delle truppe occidentali verso Mosca si stava accorciando sempre di più ma, soprattutto, colpendo perfino i Paesi dell’ex- Unione Sovietica, era un’ulteriore dimostrazione che le promesse di un non allargamento della NATO verso est erano state oramai totalmente tradite.
Per dare un quadro più esauriente occorre però sottolineare che nonostante tutto ciò, quando Putin fu eletto Presidente per la prima volta (2000), le sue mosse internazionali furono di distensione verso l’Europa e tutto l’Occidente. In più occasioni l’attuale “zar” manifestò la sua volontà di stringere rapporti di collaborazione con la NATO e soprattutto con l’Europa. Anche grazie a Berlusconi, allora Presidente del Consiglio, nel 2002 a Pratica di Mare il Presidente americano e Putin concordarono la nascita del Consiglio NATO-Russia, cioè un’assemblea permanente di funzionari e di militari incentrata sui temi della sicurezza e della cooperazione. Fu però un’illusione che durò poco.
La NATO
Nel 2008 avvennero due fatti molto importanti: nella riunione NATO di Bucarest gli americani imposero che nell’ordine del giorno ci fosse l’ingresso nella NATO di Ucraina e Georgia e, poco dopo, il Presidente georgiano inviò le proprie truppe contro le regioni secessioniste dell’Ossezia e dell’Abcasia. Nel primo caso l’opposizione di Francia e Germania (e, sottovoce, dell’Italia) spinse il vertice a posticipare a data da destinarsi il possibile ingresso dei due Paesi; nel secondo, i russi intervennero militarmente e vinsero la breve guerra per “tutelare l’autodeterminazione degli osseti e degli abcasi”. L’altra decisione presa a Bucarest dalla NATO fu l’installazione in Romania e Polonia di sistemi americani di difesa anti-missile balistici. Ufficialmente si trattava di una difesa contro possibili attacchi da parte di “Stati canaglia” come l’Iran, ma considerato il loro posizionamento fu ovvio a tutti, e soprattutto a Mosca, che il vero obiettivo era proprio la Russia.
Nel frattempo il governo ucraino Juščenko – Timoshenko era crollato sotto il malcontento popolare e i litigi interni. Il Presidente, dopo un continuo cambio di Ministri, fu costretto a indire nuove elezioni che si tennero nel 2010. Il risultato elettorale del 17 gennaio 2010, portò alla vittoria di Viktor Yanukovich con una decina di punti di vantaggio sulla Timoshenko. Il ballottaggio, tenutosi il 7 febbraio, confermò la sua vittoria col 51,84% dei voti. I rappresentanti OSCE presenti sul luogo confermarono che le elezioni furono corrette e fair. Il nuovo Presidente, considerato filo-russo, di fronte ad una situazione economica affatto positiva cominciò a cercare di “ricattare” Mosca per ottenere più aiuti e sconti sul prezzo delle materie energetiche ma, davanti alle reticenze dei russi, cercò di giocare su due tavoli e si dette disponibile ad assecondare le proposte europee di aderire al East-Partnership. Era questa un’iniziativa lanciata nel 2009 da Bruxelles e voluta fortemente da Polonia e Svezia per allontanare dall’influenza politica ed economica russa una serie di Paesi dell’Est Europa. In particolare si indirizzava a Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia e, appunto, Ucraina. Ovviamente, la cosa non piaceva a Mosca e ciò li convinse a concedere a Yanukovich buona parte di quanto aveva richiesto. Ottenuto lo scopo desiderato, il Presidente ucraino rifiutò formalmente di continuare i colloqui con gli europei e riconfermò la vicinanza economica alla Russia.
Maidan
Spontaneamente o meno, una grande quantità di cittadini (soprattutto di Kiev e della Galizia) oramai convinti di essere quasi vicini a godere del benessere europeo grazie a finanziamenti a pioggia in arrivo da Bruxelles, si radunò verso la fine del novembre 2013 nella piazza principale (Maidan) della capitale per protestare. Chi vide quell’assembramento notò immediatamente che, per quanto il malcontento fosse reale, l’organizzazione della piazza non aveva nulla di spontaneo. La maggior parte delle tende erano uguali tra loro e ci fu un efficiente servizio di catering per fornire cibo ai manifestanti. Inoltre, furono notati gruppi armati mischiati alla folla (le famigerate organizzazioni “neo-naziste” come Pravyj Sektor). Quanto qui riferito mi fu raccontato con dettagli da un giornalista indipendente presente sulla piazza. La protesta fu, all’inizio, relativamente pacifica ma gli animi si stavano scaldando e gli scontri tra polizia e dimostranti, seppur non particolarmente cruenti, cominciarono ad aumentare. La polizia impiegò manganelli, gas lacrimogeno e granate stordenti arrestando una decina di persone e ferendone oltre un centinaio. La Rada (il Parlamento ucraino) votò allora più severe leggi anti-protesta, ma ciò accese ancora di più gli animi e le manifestazioni si allargarono ad altre città, aggravandosi nel febbraio 2014 anche fuori Kiev. Sulla piazza cominciarono gli spari e decine di persone, sia poliziotti che manifestanti, rimasero sul terreno. Su chi fosse il primo a sparare, se la polizia o i contestatori, ci sono varie voci ma un candidato nelle elezioni presidenziali polacche (un ex militare) disse pubblicamente che chi sparò per primo furono uomini addestrati in Polonia espressamente con lo scopo di aumentare i disordini. Intervenne a quel punto l’Unione Europea che inviò tre delegati per parlare con Yanukovich. L’accordo fu raggiunto, seppur a fatica, con l’impegno del Presidente di indire, dopo il solo tempo tecnico necessario, nuove elezioni. Uno dei leader della protesta, Vitaly Klitschko (un ex pugile sostenuto dai tedeschi per un futuro governo), confermò che le opposizioni, in compenso, avevano accettato di mettere fine alla ribellione. Anche Euromaidan, il collettivo che rappresentava gli attivisti in piazza, accettò l’intesa dopo che in un primo momento l’aveva respinta. Con questo patto si sperava di fermare la spirale di violenza che aveva portato ad oltre 80 vittime. L’allora Presidente dell’UE Herman van Rompuy dichiarò: “L’Ue accoglie con favore l’accordo governo-opposizione in Ucraina, compromesso necessario per lanciare l’indispensabile dialogo politico. Ora è responsabilità di tutte le parti essere coraggiosi e trasformare le parole in fatti”.
Che gli americani abbiano aizzato la folla (se non molto di più) è indiscutibile, tanto è vero che alcuni parlamentari a stelle e strisce e il loro Ambasciatore tennero in piazza alcuni comizi incoraggiando i contestatori a proseguire nella loro protesta. Ciò in barba al principio di “non intromissione nei fatti politici” di uno Stato straniero ufficialmente indipendente. Che gli Usa fossero intenzionati a destituire un governo democraticamente e legittimamente eletto è reso ancora più evidente dal comportamento della vice-Segretario di Stato americana Victoria Nuland. È ancora reperibile su Internet una sua conversazione telefonica (probabilmente intercettata dai servizi segreti russi) con l’Ambasciatore statunitense in Ucraina, Geoffrey Pyatt: i due parlano della grave situazione politica in corso e della strategia che gli Stati Uniti vogliono adottare nei confronti dei leader dell’opposizione. L’ambasciatore suggerisce che prima di fare la proposta a favore di Yatsenyuk (uomo preferito dagli americani e poi realmente nominato Primo Ministro), sarebbe stato opportuno consultare l’Unione Europea e le spiegava i dubbi dei Paesi dell’Unione europea per quello che a molti sembrava un vero e proprio colpo di Stato sostenuto da Washington. “Fuck Europe”, fu la risposta della Nuland. Tradotto: “L’Europa può andare a farsi fottere”. Poco giorni dopo, in una conferenza tenuta negli Stati Uniti presso l’Associazione USA-Polonia la stessa sostenne che gli americani avevano investito in Ucraina ben cinque miliardi di dollari per “portarvi la democrazia” e che non sarebbe certo bastato ottenere un semplice accordo con Yanukovich. Anche l’aggravamento della situazione con l’inizio delle sparatorie non lascia dubbi su chi lo abbia voluto. Il ministro degli Esteri estone Urmas Paet, rientrato da un viaggio a Kiev compiuto solo 5 giorni dopo il massacro riferisce in una telefonata alla Commissaria agli esteri dell’Unione Europea Catherine Ashton le rivelazioni ottenute da una dottoressa ucraina che aveva esaminato i cadaveri di Piazza Maidan. La telefonata, intercetta e diffusa dai media russi, è sconcertante.
“La cosa più inquietante – spiega Paet – è che tutte le evidenze dimostrano che le persone uccise dai cecchini – sia tra i poliziotti, sia tra la gente in strada – sono state uccise dagli stessi cecchini…”. Davanti alla perplessità di una Ashton visibilmente imbarazzata il ministro cita la testimonianza della dottoressa ucraina. “Lei parla come medico dice che si tratta della stessa firma, dello stesso tipo di proiettili. È veramente inquietante che ora la nuova coalizione – ribadisce Paet – si rifiuti di indagare su cosa è realmente successo. C’è una convinzione molto forte che dietro i cecchini ci siano…. che non ci sia Yanukovich, ma qualcuno della nuova coalizione…”.
Dopo Maidan
Appena si fu insediato il nuovo governo con gli uomini scelti dagli americani si decise che andavano interrotti i colloqui con la Russia e si sarebbe accettato dall’Europa ciò che Yanukovich aveva rifiutato. Supportati da Mosca, i russi etnici del Donbass, ove erano maggioranza, dichiararono la loro volontà di secedere dal resto dell’Ucraina e si armarono per difendere con le armi la loro decisione. Contemporaneamente, la Russia si annetteva la Crimea, anch’essa a maggioranza etnica russa e soprattutto sede del porto che ospita da più di un secolo la marina militare di Mosca nel Mar Nero. Anche in altre città ove era forte la presenza di cittadini di origine russa ci furono dimostrazioni, quasi sempre pacifiche, contro le decisioni di Kiev ed emblematico è il caso di Odessa. Quella città è da sempre un crocevia internazionale ed ospita una maggioranza russofona a fianco di diverse minoranze, in ordine: ebrei, francesi, ucraini, italiani ed altri.
Quando un gruppo di russi locali si mise a manifestare lungo la città per contestare l’abbandono dei legami con la Russia, da fuori città arrivò un manipolo di estremisti di destra (dichiaratamente neo-nazisti). Le due fazioni si scontrarono violentemente e i filo-russi, in inferiorità numerica si rifugiarono allora nella sede del sindacato locale. A quel punto gli avvenimenti diventano confusi e c’è chi sostiene ci sia stato l’uso di armi da fuoco da entrambe le parti. Ciò che è chiaro è che, a un certo punto, il palazzo venne incendiato e alcuni dei presenti morirono tra le fiamme mentre chi decise di uscire fu ucciso o gravemente ferito sulla strada. La polizia antisommossa, pur presente, non intervenne e i pompieri, nonostante la loro sede fosse vicina al luogo dell’evento, arrivarono 40 minuti dopo. I morti furono 42 e la maggior parte delle vittime fu tra i manifestanti filorussi mentre le restanti erano del tutto estranee alle manifestazioni in quanto si trovavano fortuitamente all’interno dell’edificio al momento della sua occupazione e poi dell’incendio.
Altre 247 persone ricorsero a vario titolo all’assistenza sanitaria, ma è presumibile che molte altre evitarono di farlo per paura di ritorsioni. La stampa occidentale riferì molto superficialmente e del fatto non se ne parlò poi quasi più. A Mosca, invece, la cosa fece molta impressione, mentre in Ucraina il sito di Pravyj Sektor chiamò gli incidenti di Odessa “una pagina luminosa nella nostra storia nazionale” e il parlamentare di Svoboda (altro gruppo di estrema destra nazionalista) Iryna Farion pubblicò su Facebook “Brava, Odessa. Perla dello Spirito ucraino. Luogo di nascita dei grandi nazionalisti Ivan e Yurii Lypa. Lascia che i diavoli brucino all’inferno”. Il 23 ottobre 2016 il Presidente Petro Poroshenko disse che Odessa aveva pagato un prezzo pesante per fermare i separatisti filorussi: “Ora Odessa è diventata una città molto filo-ucraina!
Sui media russi, Odessa è persino chiamata banderista (da Stepan Bandera, antisemita e alleato dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, ora Eroe Nazionale dell’Ucraina). E per me non può esserci complimento più grande per Odessa”. Le indagini ed i procedimenti avviati dalla giustizia ucraina si sono rivelati particolarmente lenti e lacunosi e non in linea con gli standard giuridici europei. In particolare un solo capo di imputazione per omicidio è stato effettivamente contestato (nei confronti di un militante ucraino che avrebbe sparato ad uno dell’opposta fazione), mentre nessuno degli altri procedimenti è giunto a sentenza. I responsabili dell’incendio scoppiato nella Camera dei sindacati non sono mai stati identificati. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani affermò nel suo rapporto del 2016: “i procedimenti penali […] sembrano essere stati avviati in modo parziale. Finora sono stati perseguiti solo attivisti del campo “pro-federalismo” (cioè pro-russo N.d.A.), mentre la maggioranza delle vittime erano sostenitori del movimento “pro-federalismo”. […] Le indagini sulle violenze sono state affette da carenze istituzionali sistemiche e caratterizzate da irregolarità procedurali, che sembrano indicare una riluttanza a indagare e perseguire realmente i responsabili” (fonte: Wikipedia).
Il Donbass
Dal 2014 cominciano gli scontri armati al confine tra le autonominatesi Repubbliche di Luhans’k e di Donetsk e partono le sanzioni americane ed europee contro Mosca. Gli scontri tra l’esercito regolare ucraino e gli insorti sono stati poco seguiti dai nostri media e, anche quando lo hanno fatto, è sempre stato solo dal punto di vista di Kiev. Quel conflitto è stato il vero inizio dell’attuale guerra e, prima del febbraio 2022, aveva già causato almeno 13.000 morti, di cui la maggior parte proprio tra i cittadini del Donbass.
Che sia stata la Russia ad invadere il territorio già ucraino è un dato di fatto, ma nessuno può affermare in buona fede che da Mosca non si sia tentato di evitare questo secondo stadio della guerra iniziata nel 2014. Il 5 settembre del 2014, pochi mesi dopo l’inizio del conflitto tra Kiev e le repubbliche secessioniste, a Minsk si sono incontrati un rappresentante dell’OSCE, l’ex Presidente ucraino Kuchma delegato dal suo governo, l’Ambasciatore russo a Kiev e i leader delle due repubbliche. Nel protocollo scaturito da quell’incontro venivano previsti alcuni punti d’incontro tra le pretese delle parti ma il più importante, e cioè quello che avrebbe posto veramente fine a quello scontro, era che la Rada avrebbe modificata la Costituzione in modo da consentire alle due regioni russofone di godere di uno Statuto speciale. In altre parole, se l’Ucraina avesse concesso la possibilità di governi locali con una certa autonomia e avesse consentito, almeno nelle regioni orientali, l’uso del bilinguismo ucraino e russo, le armi avrebbero potuto tacere da entrambe le parti. L’allora nostro Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dopo un incontro con Putin, Poroshenko, Merkel, Holland e Cameron, arrivò a proporre una soluzione simile a quella che in Italia abbiamo per l’Alto Adige. Ebbene, Mosca dichiarò di accettare quella possibile soluzione, ma Kiev la rifiutò nettamente. Comunque sia, nonostante la firma ufficiale apposta sul documento comune da tutte le parti e dopo un ulteriore approfondimento cui furono presenti anche Francia e Germania (Minsk II, 22 febbraio 2015), sempre controfirmato da tutti, la RADA si rifiutò di procedere alle modifiche costituzionali previste e concordate. Recentemente, sia la Merkel che Hollande hanno ammesso che gli accordi di Minsk non furono sottoscritti da loro in buona fede poiché l’accordo con Kiev era che dovevano guadagnare tempo per poter procedere a una più importante fornitura di armi all’Ucraina da parte dei Paesi occidentali (dichiarazioni ufficiale della ex Cancelliera riportata da un giornale tedesco e poi confermata da Hollande).
La guerra continua e si allarga
Nel luglio 2021 l’esercito ucraino partecipò ufficialmente ad una esercitazione militare della NATO in cui si ipotizzava uno scontro con un nemico proveniente da Est. Si cominciò a parlare della possibilità che, in autunno, l’esercito di Kiev avrebbe lanciato un forte offensiva contro i territori ribelli. Non avvenne, ma il 15 dicembre dello stesso anno i russi inviarono agli Usa un documento, contemporaneamente reso pubblico al mondo, nel quale avanzavano alcune richieste che, a loro giudizio, avrebbero garantito la pace nel continente. Tra le richieste, anticipate da vari media russi, vi era la creazione di una “hotline” tra Mosca e la Nato, la promessa da parte degli Usa di “non espandere” ulteriormente la Nato e di ritornare alle posizioni del 1997. Le proposte di garanzia di sicurezza “non sono un ultimatum”, precisò il viceministro degli Esteri russo, Serghei Ryabkov, ma la serietà degli avvertimenti della Russia “non deve essere sottovalutata” e offrì agli americani d’incontrarsi “anche domani” in un Paese terzo, per esempio Ginevra, per avviare i negoziati. Fu evidente che alcune di quelle condizioni erano oggettivamente inaccettabili ma la NATO rifiutò comunque perfino di discuterle.
Poco dopo, il 23 febbraio 2022 le truppe russe attaccarono l’Ucraina. (e nei mesi successivi gli americani distrussero i gasdotti North Stream I e II compiendo un atto di guerra non solo contro la Russia ma anche contro la Germania, che sopportò in silenzio).
Tutto quanto esposto qui sopra è realtà dei fatti e ogni informazione riportata è facilmente verificabile. Dire, oggi, che è avvenuta un’aggressione da parte di uno Stato nel territorio di un altro è tautologico. Affermare che non vi sia stata alcuna provocazione e che la decisione della guerra ricada completamente e solamente sulla Russia è una bugia. Sostenere che non lo è, dire che questa guerra è ingiustificata e frutto di un desiderio espansionistico di Mosca, ecco la vera propaganda! E non è quella russa.