Come al gioco dell’oca, siamo tornati al punto di partenza. Il dejavù trumpiano dovrebbe far riflettere su più temi. Non entriamo nel merito dei programmi, delle ideologie. Sicuramente Trump è più personaggio che altro, una maschera sopra le righe che è stato capace di imporsi per due volte Presidente degli Stati Uniti.
Esiste però un dettaglio che non si può sottovalutare: la corsa alla Casa Bianca, mai come questa volta, è sembrata banale e scontata fin dalle prime battute.
I media ce l’hanno messa tutta, raccontandoci fino al rush finale una visione distorta della realtà secondo la quale la Harris e il buon Donaldone erano testa a testa nei sondaggi. Forse per mantenere l’hype di un processo mediatico importante, per far credere alle persone che il voto di ciascuno di loro fosse determinante al risultato. Credo che alla base ci sia la spettacolarizzazione dei concetti e dell’individuo alla quale gli USA hanno sempre tenuto molto, facendone un credo in ogni cosa.
I risultati sono stati schiaccianti, umilianti per certi versi per la povera Kamala che quasi vincitrice è stata rimbalzata nel dimenticatoio solo poche ore dopo lo spoglio.
In tutto questo la comunicazione ha avuto un ruolo fondamentale: sicuramente il retro front di Biden è stato determinante, ma vedendo i risultati non sarebbe stato decisamente la figura giusta da contrapporre all’esuberante Donald.
Trump va analizzato su più tavoli, di fatto lui è la prova che la gente si è stancata di mille giri di parole, di concetti astratti e di programmazioni spalmate su lassi di tempo infiniti e talvolta stucchevoli. Un personaggio che ha fatto della concretezza e dell’azione il suo cavallo di battaglia.
C’è da dire tuttavia che sulla maggior parte delle azioni del governo trumpiano ci sono stati degli intralci o dei ripensamenti tecnici necessari. Si, perché fra dire di voler alzare un muro fra Messico e Stati Uniti e costruire una barriera di 3000 chilometri passa tanta roba nel mezzo. Il governo Trump ha dimostrato in più di un’occasione che le decisioni di impulso hanno delle carenze tecniche e costituzionali.
Il primo Trump ha gestito discretamente i rapporti internazionali facendo dialogare Paesi nei quali la tensione era ai massimi livelli. Ha instaurato un rapporto più o meno costruttivo con tutte le potenze mondiali ed ha provato a tutelare gli Stati Uniti con dazi importanti imposti ai mercati specialmente cinesi.
Ovviamente questo ha dimostrato avere ripercussioni sull’economia americana, subendo l’effetto della riduzione dei rapporti di import/export, situazione sistemata a posteriori con accordi con la Cina stessa.
Forse in chiave politica internazionale un personaggio del genere potrebbe trovare la chiave per il dialogo fra Russia e Ucraina, facendo pressioni sugli investimenti possibili fra i diversi mercati. A quel punto anche l’Italia gioverebbe della cessazione di una guerra che oltre ad essere una sconfitta per l’umanità rimane sempre un grande deterrente allo sviluppo economico e sociale dei coinvolti e di tutti gli altri.
La verità, come in tutte le cose, sta un po’ nel mezzo. Se da una parte Trump ci ha dimostrato che una politica di getto non funziona generando problematiche a lungo termine, dall’altra c’è una politica fatta di metodologia infinita e inconcludente, che per stare attenta al politically correct perde di vista il fatto che essere chiamati a governare un Paese impone di fare scelte che a volte possono essere dure, ma si fanno nel bene di tutti.
Dato certo è che alle urne va un popolo che è stanco e disilluso di teoremi e filosofia; che inevitabilmente sposta preferenze su quello che sembra operativo, determinato, purtroppo talvolta impattante. Una forma nuova di politicante, più popolare, sgraziato e irriverente. Un po’ come ognuno di noi, un po’ come il cittadino medio, più vero, genuino. Fatto sta che dal Presidente degli Stati Uniti ci si aspetta un atteggiamento più elegante e distinto, ma questa è una forma non determinante agli obiettivi di governo.