"La rinascita demografica per salvare l’Italia": è la convinzione seguita da Roberto Menia, segretario generale del Ctim nel suo fondo apparso sul nuovo numero di Prima di Tutto Italiani.
“E’ passato quasi sotto silenzio – osserva Menia -, al massimo confinato nei riquadri di cronaca che raccontano di fatti curiosi, il dato, drammatico, diffuso lo scorso 20 febbraio dall’Istat. Nel 2015 sono nati soltanto 488.000 bambini, il dato più basso dall’unità d’Italia, quando la popolazione era meno della metà dell’attuale, 15.000 in meno dell’anno precedente, che deteneva il precedente primato negativo. Le morti, oltre 650.000, sono aumentate del dieci per cento e l’indice relativo, superiore al 10,2 per cento, è tra i più elevati al mondo.
L’indice di natalità è sceso sotto il 10 per mille, attorno all’8 per mille. La matematica e la scienza demografica spiegano che, per mantenere almeno inalterata la popolazione, la natalità dovrebbe viaggiare a 2,1 figli per donna in età fertile. E secondo quanto affermano diversi studi scientifici in proposito, tra trent’anni o poco più, attorno al 2045-2050, gli italiani, semplicemente non riproducendosi ed a fronte del dato in costante salita delle nascite di bimbi stranieri, saranno una minoranza in patria, nel nostro magnifico stivale, l’Italia. Tra cent’anni, profetizzano i più pessimisti, non esisteranno più italiani “doc”.
"Se questa Italia ha ancora coscienza di se stessa non può non porsi, e da subito, il problema del suo destino che è intrinseco al concetto stesso di nazione. Italianità non può essere solo retorica o archeologia, non può essere esercizio banale di ricordo dei grandi uomini, degli artisti, dei monumenti e delle opere, sentimento struggente per chi è lontano: è anche e soprattutto operare perché l’Italia viva e si perpetui. Di questo dovrebbe riflettere la classe politica: quale Italia vogliamo lasciare a i nostri figli e cosa sarà, a breve, l’Italia dentro e fuori dai suoi confini. E indicare una strada. E’ questa al tempo stesso – e lo dico con un gioco di parole – una grande questione di “entità” e di “identità” nazionale. Al netto delle battute sulla campagna demografica di Mussolini (che ci aveva visto bene con un secolo d’anticipo) bisogna avere il coraggio di attuare una vera e propria politica di rinascita demografica: prima di tutto con il sostegno alla famiglia, quella naturale, formata da uomo e donna che genera figli e perpetua la Nazione, l’unica che lo stato ha un interesse vero a tutelare. Alla stessa andrebbero dedicate premialità fiscale (quoziente familiare o fattore famiglia), assistenza, servizi, asili nido, mutui casa, aiuti alle giovani coppie, flessibilità negli orari e nel lavoro, solidarietà… Ma all’Italia di oggi (come l’Europa del resto) pare interessare di più attribuire lo status di famiglia alle coppie omossessuali, che sono sterili per definizione".
Scrive che "se il picco più desolante di decrescita della natalità in Italia è oggi rappresentato dal sud, un tempo icona della famiglia italiana numerosa, è segno che pesa come un macigno la condizione di pessimismo, di mancanza di certezze, che induce a non generare i figli. Una politica di rilancio del mezzogiorno, che dia speranza e non assistenzialismo, è doverosa e necessaria. Se alle nostre culle vuote fanno da contraltare i figli degli immigrati e le donne islamiche perennemente incinte che vediamo nelle nostre strade, bisogna avere il coraggio di affermare alcuni principi: l’Europa matrigna non può chiudere le sue frontiere interne e lasciarci da soli (assieme alla Grecia) a fronteggiare l’onda migratoria che sta diventando un’invasione. Dal canto nostro dobbiamo attuare politiche migratorie che guardino a favorire l’inserimento di stranieri che abbiano – come scrisse profeticamente vent’anni fa il card. Biffi – elementi di compatibilità tradizionale e religiosa con la nostra identità nazionale e cristiana. Dobbiamo favorire il rientro dei nostri emigranti o dei loro discendenti, visto che abbiamo 60 milioni di oriundi italiani sparsi in ogni parte del mondo. Continuiamo quindi a seminare la nostra lingua nel mondo, facciamo riabbracciare il seme della loro origine alle nuove generazioni, creiamo ponti e strumenti affinchè il moto migratorio non sia ancora una volta quello degli italiani in fuga dall’Italia, ma chi vuole torni, o tornino i suoi figli o nipoti. Dobbiamo infine creare “nuovi italiani”: questo si fa con l’integrazione degli stranieri e dei loro figli, facendo sì che studino la nostra lingua, assorbano i nostri valori, li condividano e la cittadinanza sia per loro un premio, non un regalo che si usa e getta.
E conclude: "Alla fine, ma forse all’inizio, ci vuole un’Italia che ritrovi se stessa, meno egoista, meno banale, meno vuota, meno nichilista: che sappia ritrovare il senso della comunità e della generosità, dell’essere padri e dell’essere figli, dei diritti a cui corrispondono i doveri, dei valori e dei principi morali su cui vive una nazione. Altrimenti si diventa vuote anime grigie di passaggio, magari tra mille cartelli arcobaleno. Ma poi si muore. E muore l’Italia".
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