Chissà, e credo che il dubbio sia più che lecito, se dopo che la pellicola ha avuto il tempo di sedimentare negli occhi e nell’immaginario collettivo, alcuni degli attori che hanno partecipato al film, oggi accetterebbero di nuovo di parteciparvi. Io non ne sarei tanto sicura. E non dico questo per togliere qualcosa al film, che è superbo, ben fatto con una mano sartoriale invidiabile, ma per ben altri motivi.
Sullo sfondo di Roma, bella e quasi magica, si stagliano figure deturpate, mostrificate dalla chirurgia estetica, che ne ha alterato i connotati per sempre, con operazioni tanto grottesche, quanto irreversibili. Nel film c’è addirittura il numeretto come alle Poste, e “tac”arriva il medico/guru munito di siringa, stillante gocce che costano più di un collare per cani in platino, poi si passa alla cassa.
Dopo l’oscar, Serena Grandi, attualmente ristoratrice, si è tatuata la statuetta sull’avambraccio, in un gesto tracimante cultura trash. Credo che se il regista la rivedesse ora, la sceglierebbe di nuovo e con maggiore convinzione. Chissà poi se la spogliarellista pluriquarantenne firmerebbe ancora quel contratto, lei che non ha più il viso di una trentenne, ma di una cinquantenne senza nemmeno una ruga, la pelle levigata come una pista di curling, e due zigomi altissimi che a vent’anni non aveva, e che ora svettano come le dolomiti.
La melassa di festaioli nullafacenti, bizzarri, dallo stile di vita tanto inutile, quanto opulento, danza sotto gli occhi di Jep Gambardella, che è consapevole di ciò che è, di quello che negli anni è diventata la sua vita e non è uno che se la racconta.
L’Urbe è così bella e i “festaioli” non brutti, bensì abbrutiti, che non c’è posto per una bella donna, non ce n’è nemmeno una nel film a parte una ragazza giovanissima, ma solo attrici brave e che quasi tutte non hanno saputo resistere alla tentazione feroce e luciferina della chirurgia plastica. Spiccano nasi lucidi, balli di gruppo che sarebbero tristi anche a capodanno e che raggiungono il picco della malinconia carnascialesca, nel temutissimo e puntuale trenino, che è vero che non arriva mai da nessuna parte, ma è altrettanto vero che non dovrebbe mai nemmeno partire!
I personaggi, tra cui tante donne non vestite, ma addobbate in modo “baraccone”, si muovono con un bigné in una mano e una tartina nell’altra, tra immagini e fondali bellissimi, in un pigro “viaggio” attraverso gli inferi di un’umanità lacerata e deformata da se stessa.
Infine, se la nobiltà romana a fine 800 era già in profonda decadenza, aggrappata alle vesti di quello che ormai non era più il Papa re, vive nel film un annientamento umiliante. Vediamo in modo nitido, una società incapace di essere all’altezza dell’immensa bellezza in cui vive e si è abbandonata del tutto al nulla assoluto trincerandosi dietro un’indolenza che ha generato un’integrità ideologica solo apparente. Galleggiano ai bordi melmosi del Tevere tante false amicizie, rapporti di convenienza, genuflessioni e riverenze ad un clero mondano e sciocco, del tutto indifferente ai dubbi esistenziali e spirituali di quel gruppo di nullafacenti che per loro fortuna non hanno piena consapevolezza della vacuità e del grottesco sorriso che hanno sulla faccia post botox.
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