C’erano una volta gli emigranti italiani in Svizzera. E ancora ci sono. Ma un tempo c’erano anche le “Case d’Italia” che i suddetti emigranti compravano, soldino su soldino, per avere asili e scuole italiane e ospitare gli uffici di patronati e consolati. Oggi non ci sono (quasi) più. Perché quelle case, donate allo Stato italiano con l’intesa che le comunità locali ne avrebbero usufruito in perpetuo, sono finite sul mercato: dopo Locarno, San Gallo e Bellinzona, nel 2017 andrà in vendita la “Casa d’Italia” di Lucerna.
Tre piani, 1506 metri quadrati, il bellissimo edificio al numero 92 di Obergrundstrasse era stato comprato dal Regno d’Italia nel 1939 per 158 mila franchi svizzeri, di cui 62 mila sborsati dalla comunità tricolore di Lucerna. Che ora, e giustamente, alla notizia della vendita è in rivolta.
EMIGRANTI ESPROPRIATI. Sarà «un introito alquanto modesto per le finanze del Paese» e un esproprio, di fatto, per «la collettività italiana di Lucerna», avverte il deputato Alessio Tacconi, eletto in Svizzera con M5S e poi passato al Pd, in un’interrogazione al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Oltre alla quota per l’acquisto, gli emigranti hanno cacciato infatti fior di quattrini anche dopo il 1939: nel 1944 si sono accollati il pagamento degli interessi per le ipoteche (altri 77 mila franchi fino al 1958), per «un contributo totale della collettività italiana che si poteva quantificare all’epoca in 139.000 franchi»; poi, quando il consolato è stato declassato a vice-consolato e poi ad agenzia consolare, e quando questa è stata chiusa nel 2000, hanno costituito una fondazione appositamente destinata a mantenere la “casa d’Italia” e «renderla fruibile per la comunità nel medio e lungo periodo».
DOCCIA FREDDA. Nel 2008 la fondazione ha così firmato una convenzione con lo Stato italiano per una concessione di 9 anni. In cambio del canone agevolato si è impegnata a ospitare asilo, sede del Comites, sportello consolare e altri uffici utili agli italiani di Lucerna, oltre a effettuare lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria per 196 mila franchi. In vista della scadenza del contratto, ha poi chiesto una proroga impegnandosi a fare altri lavori per 500 mila franchi. Ma nel marzo scorso è arrivata la doccia fredda da Roma: la palazzina è in via di dismissione e per ora non è contemplata la possibilità, come chiede Tacconi, di un’intesa con la comunità italiana per «valorizzare un edificio di così grande significato storico».
MANCA LA STIMA. Certo, le casse dello Stato languono e ogni possibile introito è benedetto. Ma siamo sicuri che il gioco valga la candela, e che in cassa arrivi tutto il possibile? L’onorevole Gianni Farina, altro Pd eletto all’estero, ha qualche dubbio. E in una nuova interrogazione alla Farnesina lancia l’allarme: non solo le “case d’Italia” in Svizzera sono state finora vendute «senza considerare adeguatamente la storia» che hanno alle spalle, gli interessi delle comunità italiane, i soldi che ci hanno messo finora e la loro volontà di organizzarsi per partecipare alle aste, ma perfino senza procedere a «una stima del valore di mercato e del valore reale», così che «l’alienazione rischia di essere condotta senza regole, senza strategia ed obiettivi finali» oltre che, naturalmente, «senza la dovuta trasparenza».
SALTO CON L’ASTA. Tutta da capire, per esempio, è la dismissione della “Casa d’Italia” di Locarno, finita sul mercato nel 2015 insieme all’ex vice-consolato e a Villa Igea. I tre immobili, situati in piazza Fontana Pedrazzini, facevano gola al municipio di Locarno, che aveva avviato contatti per una possibile acquisizione. La trattativa era partita da una richiesta di 20 milioni di franchi svizzeri, circa 18,5 milioni di euro. Poi, dopo mesi di tira-e-molla, sul sito del consolato generale di Lugano è apparso quello che per l’amministrazione cittadina, secondo la stampa elvetica, è stato «un fulmine a ciel sereno»: l’annuncio della vendita all’asta.
Per i tre immobili la base di partenza era incredibilmente bassa, soltanto 4,7 milioni, ma i tempi erano troppo stretti (pubblicazione del bando il 23 marzo 2015, scadenza l’8 aprile) perché il municipio potesse partecipare alla gara. Malgrado una lettera formale alla Farnesina per tentare di ottenere il «congelamento» della procedura, la città di Locarno è rimasta a mani vuote. E tutto è finito, per 7 milioni di franchi (6,5 milioni di euro) a un immobiliarista di Bellinzona. Un terzo della richiesta iniziale.
ADDIO LOCARNO BELLA. «L’asta è sicuramente una procedura corretta», concorda l’onorevole Farina, perché tutela gli interessi dell’amministrazione e garantisce la parità di trattamento dei concorrenti. Ma ci sono situazioni in cui l’amministrazione pubblica «può annullare, sospendere o revocare la procedura d’asta». E questo di Locarno era un caso da manuale: avrebbe preservato la pubblica utilità degli edifici e permesso alla comunità italiana di mantenere l’accesso a un pezzo della sua storia. Ora sarà l’immobiliarista svizzero a proseguire la trattativa per la vendita della “casa d’Italia” al municipio. Con grande preoccupazione degli italiani di Lucerna, che temono il bis. E di tutte le altre “case d’Italia” sparse per il mondo.
Anna Morgantini per ilfattoquotidiano.it
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