Quello che è successo in Italia, in mezzo a cinici giochi di potere che un giorno dovranno essere chiariti, è stato l’irrompere prepotente e il prevalere dell’economia sulla politica. Per troppi anni il nostro Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Certo questa affermazione è dura da far accettare a coloro che non hanno lavoro, o che hanno un contratto a termine, o ai pensionati che ricevono meno di mille euro al mese. Eppure, almeno a livello di bilancio nazionale, è la semplice realtà delle cose.
Il fatto che l’Italia abbia vissuto al di sopra delle proprie possibilità lo dimostra il debito pubblico che ha continuato a crescere, comportando un costo per gli interessi che, con l’esplosione della crisi economica globale e di quella dell’euro, e in presenza della speculazione internazionale scatenatasi negli ultimi mesi, è diventato impossibile da sostenere. Sarebbe necessario ridurre drasticamente il debito, ma la cosa si può fare solo quando l’avanzo primario (il prodotto nazionale meno le spese, al netto degli interessi sul debito) è superiore agli interessi stessi.
Semplificando, possiamo dire che quando l’avanzo primario è superiore agli interessi, il debito può essere ridotto. Se l’avanzo primario è pari agli interessi, il debito rimane costante. Se l’avanzo primario è inferiore agli interessi, o se non esiste, o, peggio ancora, se si ha un disavanzo primario, allora il debito pubblico sarà destinato a crescere ulteriormente, il che purtroppo è ciò che sta accadendo in Italia da più di trent’anni.
Dette così le cose, sembrerebbe che ci attenda comunque un futuro di lacrime e sangue. Ma in realtà non è del tutto vero. Il fatto è che gli italiani sono uno dei popoli che a livello privato risparmiano di più. Infatti se si considera la somma del debito pubblico e di quello privato, l’Italia si rivela come una delle nazioni più virtuose, con un debito totale che è minore della media UE. Se quindi una parte significativa del debito pubblico fosse dei privati (si badi, non la proprietà dei titoli, ma la responsabilità di pagarli!), la nostra economia otterrebbe l’approvazione del FMI, della BCE e delle agenzie di rating. Nella maggioranza degli altri paesi sono i privati ad indebitarsi di più (con il caso limite degli USA, dove la crisi finanziaria legata a quella immobiliaria, ha dato il via alla crisi mondiale). Da noi invece, a partire dagli anni settanta ed ottanta, si è venuta creando una struttura di conti pubblici che fa in modo che a indebitarsi sia lo Stato. Ovviamente, dall’altro lato hanno un ruolo fondamentale le entrate fiscali. Ed è da sperare che il governo Monti riesca a ridurre l’evasione fiscale. Ma si deve tener conto che non tutte le attività che si svolgono in nero si potranno far affiorare come attività in regola. Molti artigiani e piccole imprese, infatti, avrebbero poche possibilità di sussistenza se si assoggettassero ai costi e alle normative vigenti. Occorrerebbe prima semplificare gli adempimenti burocratici e ridurre l’imposizione fiscale. E invece si sta andando in senso contrario, con l’aumento dell’Iva. Non dovremo quindi meravigliarci se l’economia sommersa continuerà in gran parte a restare tale. Si consideri che almeno per questo non si aggiungeranno nuovi disoccupati alla lista. Perchè è proprio l’occupazione uno dei principali problemi da risolvere. Quanto all’aumento dell’Irpef, dubitiamo che possa rivelarsi realmente risolutivo per i conti pubblici, mentre non servirà certamente ad incentivare la domanda, e per essa a creare nuovi posti di lavoro. Effettivamente è un’equazione difficilmente risolvibile, e la causa principale, che molti analisti si ostinano a sottovalutare, è accaduta negli ultimi dieci anni, ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare in un paio di scarpe, in un utensile da cucina, in un televisore, o in un personal computer, e potete leggere “made in China”. Da noi e in tanti altri paesi dell’Occidente, milioni di lavoratori hanno perso il loro impiego da millecinquecento euro o duemila dollari al mese, e sono stati sostituiti da milioni di lavoratori da cento dollari al mese, in Cina, in India, e in altri paesi emergenti. Come nei vasi comunicanti il contenuto passa sempre dal vaso che ha il contenuto maggiore a quello che ne ha di meno, così il lavoro e la ricchezza creata sono fluiti in gran parte verso l’Oriente. Per evitare traumi alle nostre economie, sarebbe stato necessario gestire nel tempo la globalizzazione e graduare l’apertura delle frontiere economiche. A questo proposito riteniamo che si sarebbe ancora in tempo per fare qualcosa, quanto meno per limitare i danni. Occorrerebbe agire concertatamente, ma pare che nessun governo dell’Occidente abbia intenzione di agire in questo senso.
Si continua invece ad anelare la “crescita” e la creazione di nuovi posti di lavoro, il che francamente sembra impossibile da ottenere, quando tante aziende vengono chiuse o trasferiscono la produzione. Prima sono state dislocate le produzioni a basso valore aggiunto, e poi via via altre più specializzate. L’Olivetti le sue fabbriche le ha chiuse più di dieci anni fa, ma perfino l’IBM ha ceduto parte delle proprie produzioni alla Cina, da dove si profila che in futuro verranno esportati anche aerei ed altri prodotti ad altissimo contenuto tecnologico. Sarà così sempre più difficile da noi invocare la ricerca e l’innovazione, quando in paesi come l’India o la Cina ogni anno si laureano più ingenieri che nell’intero Occidente.
Tuttavia in Italia non tutto è perduto. Abbiamo anche enormi ricchezze. Ci resta, forse immeritatamente, il patrimonio artistico più grande del mondo. E un’altra grande e ancora sottovalutata ricchezza è costituita dalle decine di milioni di italiani e di loro discendenti presenti in tutti i continenti. Pochi in Italia si rendono conto che se la nostra produzione agricolo-industriale è così conosciuta, apprezzata ed esportata, molto lo si deve proprio ai milioni di nostri emigrati, che con il loro lavoro hanno diffuso il gusto italiano nel mondo. Lo stesso si può dire per le industrie dell’arredamento, del design, della moda, che hanno trovato in tanti nostri connazionali presenti all’estero i migliori agenti e promotori per la loro diffusione.
Abbiamo quindi molte carte da giocare sulla scena europea e mondiale, ma dobbiamo comunque liberarci dal feticcio della crescita, soprattutto quella della popolazione. Altro che lamentarsi della bassa natalità. E’ vero che in questo modo gli anziani peseranno di più sui giovani, che percentualmente saranno di meno, ma ciò sarà vero solo per pochi decenni. Poi si potrà stabilizzare il numero degli abitanti e il rapporto tra le diverse età, in modo compatibile con le risorse che sono limitate per definizione. Se invece si continuerà con la corsa al rialzo della popolazione, e quindi dei consumi, il PIL non riuscirà mai a crescere a sufficienza.
Ci sono incauti profeti che ritengono che le future tecnologie potranno consentire una crescita esponenziale delle risorse, la quale a sua volta potrà soddisfare una popolazione sempre crescente. Questa corsa al rialzo non potrà durare a lungo. Ognuno di noi sa bene che le catene di Sant’Antonio, anche se nel breve periodo possono far arricchire qualcuno, alla fine portano inevitabilmente al disastro e al fallimento.Dovremo piuttosto deciderci a completare quelle riforme strutturali, più che analizzate e discusse, che attendiamo da troppo tempo. Sarà indispensabile ridurre le troppo grandi disuguaglianze e certi anacronistici privilegi di alcuni. Se questa volta avremo appreso la lezione, e se nell’immediato futuro, diminuendo le spese e aumentando le entrate e – pur in presenza di un PIL in crecita nulla o modesta – riusciremo ad avere un avanzo primario, allora lo si dovrà impiegare per ridurre il debito pubblico e per incrementare le infrastrutture, uniche premesse per un futuro migliore. Sono molti “se”, e sappiamo che dovremo fare anche i conti con i sindacati, le associazioni di categoria, le varie corporazioni, e anche con i partiti, soprattutto quelli di sinistra, che non resteranno ancora per molto tempo così remissivi. Che Iddio illumini la mente dei nostri governanti, e soprattutto, quando torneremo a votare, quella degli elettori.
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