La crisi provocata dal “caso Davis” ha lasciato un segno profondo nelle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan, contribuendo ad alimentare tensioni e incomprensioni che da sempre caratterizzano questo rapporto. Le accuse reciproche si sono moltiplicate, tanto che parlare di “trust deficit” sarebbe ormai riduttivo e spiegherebbe solo in parte le vicende di questi ultimi mesi. La verità è che ci troviamo di fronte a due Paesi che portano avanti visioni geo-strategiche per molti aspetti divergenti, mentre, per altri, completamente opposte.
La scelta di Musharraf di saltare sul carro a stelle e strisce della lotta al terrorismo, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, contraddiceva la linea politica che, per almeno due decenni, i vari regimi alternatisi a Islamabad avevano deciso di seguire. La sua decisione era fondamentalmente dettata dal timore che l’India potesse approfittare della situazione venutasi a creare per perseguire la propria agenda in Afghanistan e nell’Asia Centrale, impedendo così al Pakistan di poter ancora influire sulle vicende di questa regione. Il secondo motivo del voltafaccia era stato invece determinato dalla prospettiva di poter accedere a ingenti risorse economiche, oltre che a rifornimenti militari utili per rafforzare l’apparato militare del Paese – imprescindibile cardine di tutto il sistema politico pakistano.
Ma oggi, con il ritiro delle truppe americane ormai alle porte, le divergenze che in questi anni – non senza affanni e momenti di forte tensione – si era cercato di nascondere sotto il tappeto, riemergono con forza e mettono alla prova la solidità dei legami costruiti nell’ultimo decennio di guerra afghana. Non deve allora sorprendere quel che, solo pochi giorni fa, è emerso dalle pagine del Wall Street Journal, vale a dire, il tentativo del Primo Ministro pakistano di convincere Karzai ad abbandonare l’alleanza con gli americani e rafforzare le proprie relazioni economiche e diplomatiche con la Cina.
In tutti questi anni, Pechino ha agito dietro le quinte, seguendo con interesse le vicende afghane, ma guardandosi bene dal lasciarsi troppo coinvolgere nel pantano che oggi sta mettendo a repentaglio la leadership internazionale degli Stati Uniti. La strategia cinese è consistita nell’investire economicamente per assicurarsi le risorse minerarie di cui il Paese necessita per alimentare la propria crescita – si vedano i 3,5 miliardi di dollari spesi per il complesso minerario di Aynak – sviluppando, allo stesso tempo, buone relazioni coi principali esponenti politici del Paese. L’obiettivo sarebbe quello di farsi trovare pronti per ogni eventuale evoluzione delle vicende politiche afghane, a prescindere da chi prenderà il potere una volta che gli americani si saranno tirati fuori dal Paese. Tuttavia, questo punto meriterebbe un maggiore approfondimento.
Sebbene Barack Obama abbia infatti annunciato il progressivo ritiro delle truppe dall’Afghanistan, è nota a molti la volontà degli americani di stabilire una presenza permanente in quella che rappresenta una postazione strategica nello scenario asiatico. A marzo sarebbe cominciata una serie di incontri ai massimi livelli tra Stati Uniti e Afghanistan, tesi al raggiungimento di un accordo per la sigla di uno “Status of Forces Agreement” (SOFA) che permetterebbe a Washington di poter stabilire una preziosa base di osservazione e controllo, a poche miglia dalla Cina e a ridosso di Paese ricchi di risorse energetiche, come quelli dell’Asia Centrale.
Stando a fonti vicine all’esercito pakistano, tale presenza, in realtà, non sarebbe altro che una postazione da cui poter lanciare, nei prossimi anni, un’offensiva tesa a sottrarre a Islamabad il controllo di quello che si accinge a diventare il quinto maggior arsenale nucleare del pianeta. Il quadro è complesso quanto basta per determinare una situazione in cui ognuno si sente libero di potersi svincolare dai precedenti accordi e cerca di stringere nuovi, e più vantaggiosi, contatti.
Sarebbe da leggere in questa ottica la proposta fatta da Gilani al presidente afghano, in occasione dell’incontro avvenuto a Kabul lo scorso 16 aprile. Il governo pakistano si è affrettato a smentire tali notizie, etichettandole come insinuazioni prive di basi, oltre che di un senso logico. L’alleanza con Washington dunque, sarebbe solida: a testimonianza di ciò ci sarebbe l’incontro, che si è svolto l’altro ieri, tra i vertici di Afghanistan, Stati Uniti e dello stesso Pakistan. Tuttavia, restano forti dubbi che si tratti di qualcosa di più di una semplice costruzione giornalistica e i fatti delle ultime settimane non fanno che confermare questo sospetto.
Le pressanti richieste di Washington di intensificare le operazioni militari nelle regioni occidentali al confine con l’Afghanistan e le continue accuse mosse all’ISI da parte di esponenti dell’amministrazione Obama o di membri di spicco delle forze armate americane – da ultimo, quelle dell’Ammiraglio Mullen – hanno alimentato la frustrazione di Islamabad, vittima – a suo dire – degli insuccessi ottenuti sinora dagli Stati Uniti nella campagna condotta in Afghanistan. D’altro canto, l’esercito pakistano mostra crescenti segni di insofferenza di fronte alla volontà americana di guidare personalmente le operazioni militari nelle FATA e alla sempre più massiccia presenza di ufficiali della CIA entro i confini nazionali. La volontà di Kayani e compagni sarebbe dunque quella di ristabilire il pieno rispetto della sovranità pakistana, guidando personalmente gli attacchi effettuati per mezzo dei droni, ma ci sono poche possibilità che questo desiderio possa realizzarsi.
Considerata la freddezza dei rapporti con Washington, il Pakistan avrebbe allora deciso di rivolgersi alla Cina, sua più fedele alleata nella regione. Il 28 e il 29 aprile, il ministro degli esteri pakistano Salman Bashir si è recato a Pechino nell’ambito dello “Strategic Cooperation Dialogue”, incontrando i massimi vertici dell’amministrazione cinese. In tale occasione, si sarebbero affrontati molti temi, tra cui quello di un ulteriore potenziamento dei legami tra i due Paesi, in modo da permettere a Islamabad di ridurre la propria dipendenza dagli Stati Uniti. D’altronde, non è certo una novità che il Pakistan conti molto sull’alleanza con la Cina, specie in chiave anti-indiana.
La novità consisterebbe piuttosto nel fatto che il governo pakistano starebbe adesso cercando di trascinarsi dietro anche l’Afghanistan, tentando di far leva sulle tensioni esistenti tra Kabul e la Casa Bianca. Nel fare ciò, pare che Islamabad stia anche cercando di assicurare un posto nell’esecutivo afghano ad alcuni esponenti del network degli Haqqani.
D’altra parte, a Karzai non mancherebbero certo buone ragioni per voltare le spalle agli Stati Uniti. Negli ultimi anni, le relazioni tra i due Paesi sono state caratterizzate da un susseguirsi di accuse che spesso hanno riguardato, in prima persona, lo stesso presidente Karzai, oltre che i suoi familiari e alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Il sostegno americano deriverebbe più da una mancanza di reali alternative, che da un reale apprezzamento per la sua attività di governo. Occorre tuttavia sottolineare come, nonostante il recente avvicinamento tra Pakistan e Afghanistan, resti ancora un fitto strato di reciproca diffidenza, che impedisce alle parti di convergere concretamente su una strategia comune. Le dichiarazioni del presidente afghano a seguito dell’uccisione di Osama Bin Laden – secondo cui gli americani dovrebbero concentrare la propria attenzione sullo smantellamento dei rifugi stabiliti dai terroristi oltre confine, piuttosto che continuare le proprie operazioni nelle povere regioni sud-orientali dell’Afghanistan – mostrano quanto labili siano i progressi sinora registratisi nelle relazioni tra i due Paesi.
Al momento dunque, la Cina rappresenterebbe per l’Afghanistan più una carta da giocarsi per ottenere il massimo da Washington, che una reale alternativa all’alleanza con la Casa Bianca. D’altronde, nemmeno l’India – paese che detiene ottimi rapporti col governo di Kabul – vedrebbe di buon occhio un’eventuale virata di Karzai in direzione della Grande Muraglia.
Per quel che riguarda il Pakistan, resta da vedere quanto Pechino intenderà impegnarsi in un Paese fortemente destabilizzato dalla presenza di numerosi gruppi di terroristi e separatisti che ostacolano il regolare svolgersi delle attività economiche. Alla luce delle difficoltà incontrate dalla Cina a Gwadar – città del Baluchistan in cui i cinesi hanno deciso di investire miliardi di yuan per assicurarsi una postazione strategica nei pressi delle principali rotte petrolifere dell’Oceano Indiano – è più che probabile infatti, che le autorità di Pechino non si lascino ulteriormente coinvolgere nelle questioni pakistane, almeno per il momento.
Stando così le cose, viene allora da chiedersi come mai l’articolo pubblicato dal Wall Street Journal abbia sollevato un tale polverone. Probabilmente, lo si deve al fatto che in una fase tanto delicata della lotta al terrorismo, Pakistan e USA stanno vivendo uno dei punti più bassi della loro relazione. L’operazione che ha portato alla cattura di Osama Bin Laden, più che testimoniare l’efficacia della collaborazione tra gli apparati di intelligence dei due Paesi, è piuttosto una prova della diffidenza che caratterizza tale rapporto. Stando a fonti ufficiali americane, le autorità pakistane sarebbero state informate del blitz solo a seguito della sua attuazione e le ragioni legate a questa scelta appaiono più che evidenti. Quel che basta, insomma, per dare un quadro abbastanza chiaro della situazione.
La Cina resta dunque all’orizzonte, mentre sul campo si registra l’inizio della cosiddetta “campagna di primavera”, annunciata dai talebani pochi giorni fa e che ha già provocato la morte di numerosi civili. Il momento è estremamente delicato e solo il campo potrà dirci quanto la tensione che intercorre tra Washington e Islamabad sarà capace di influenzare l’esito della stagione di combattimenti appena cominciata. (l’occidentale)
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