Antonella Aldrighetti per il Giornale
Il dibattito sullo ius soli, seppur altalenante, continua a essere al centro dello scontro politico tant’è che nel marasma delle chiacchiere, portate avanti soprattutto dal fronte del sì, si stia perdendo il fulcro del problema.
Ovvero il giusto equilibrio tra la nostra società e quella degli stranieri immigrati, sia in termini di numeri attuali che di prole futura. E in questo ambito la cosiddetta immigrazione di ritorno degli stessi italiani che vorrebbero rientrare nel proprio Paese, favorirebbe questo equilibrio.
Inevitabile però che, se si volesse approvare una legge che faccia il paio con lo ius soli, si dovrebbe rimodulare anche quella dello ius sanguinis attualmente in vigore (legge 91 del 1992) e renderla più agile e confacente a chi per l’orgoglio delle proprie origini vuole vedersi riconosciuta la stessa cittadinanza degli antenati. Ma il percorso per ottenere la cittadinanza italiana, benché ampiamente regolamentato, è ostacolato da decine di cavilli e codicilli che inevitabilmente si vanno a risolvere con un ricorso in giudizio contro il nostro ministero dell’Interno.
Nei fatti, gli oriundi nati all’estero da avi italiani e che, nell’arco della loro vita non hanno rinunciato alla cittadinanza di origine, nel momento in cui invocano il riconoscimento iure sanguinis (ossia per diritto di sangue) della nazionalità, sono guardati sempre con sospetto.
Insomma, mentre si vorrebbe approvare lo ius soli a colpi di fiducia un diritto assodato e inalienabile come lo ius sanguinis diventa difficile da comprovare perché la madrepatria non si mostra così aperta e ospitale, con il proprio discendente, come vorrebbe apparire invece con il migrante.
I nipoti e i pronipoti dei nostri avi spesso devono ricorrere alla giustizia ordinaria per chiedere la cittadinanza con tempi che vanno da 1 a 3 anni; spese per documenti da 1.500 a 2.000 euro più il costo impegnativo delle traduzioni. Oltre a eventuali spese per affitto e oneri per il permesso di soggiorno in piena regola fino a chiedere la residenza. Infatti solo dopo che si sarà compiuto l’intero percorso allora si può ricorrere al tribunale o al Comune di residenza.
Diversamente con lo ius soli un cittadino magrebino, congolese, senegalese o sudamericano ci metterebbe meno a diventare italiano di un qualsiasi discendente di nonno Beppe che negli anni ’30, valigia di cartone serrata stretta con lo spago e qualche chiodino, ha attraversato l’oceano, il Mediterraneo o varcato le Alpi. Senza valutare che al migrante l’iter procedurale non costa nulla: gli viene concesso l’interprete, il mediatore culturale, l’avvocato per la domanda di asilo e l’avvocato per il ricorso a un eventuale diniego. E ovviamente ospitalità gratuita.
Però, malgrado l’odissea, l’orgoglio italico tiene duro tant’è che le acquisizioni di cittadinanza sono in forte crescita, da poco più di 56mila del 2011 siamo arrivati a 178mila del 2015 (dati Istat). Inoltre la metà di questi neo-italiani hanno meno di 30 anni. Degli emigrati italiani nati all’estero, uno su tre è nato negli Stati Uniti (circa 8mila, dove a oggi ci sono 30 milioni di italiani), il 23 per cento in uno dei paesi dell’Unione europea, il 18 in Africa, il 14 in un altro Paese europeo fuori dalla Ue, e l’11 in Asia. Ed è a loro che non si può negare la ricerca e l’acquisizione delle proprie radici.
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