Da troppo tempo ormai la questione dell’apertura di un negoziato tra l’Italia e la Svizzera sui problemi fiscali sul tappeto sta incrinando i tradizionali buoni rapporti tra i due Paesi. Soprattutto per il Ticino si tratta evidentemente di una priorità, perché la presenza della Svizzera in una specie di «lista nera» di un Paese confinante è oltremodo sgradevole e nociva. L’Italia, al contrario, sembra avere altre urgenze, che le fa dimenticare le numerose buone ragioni per accelerare i tempi dell’apertura del negoziato. Probabilmente il governo italiano non si rende nemmeno conto del danno d’immagine e del diffuso sentimento anti italiano che sta generando con questo suo comportamento, creando fra l’altro non poche difficoltà anche all’interno della numerosa comunità italiana.
L’Italia, e il ministro Tremonti in particolare, non dovrebbe ritenere secondario il mantenimento di buone relazioni con un Paese confinante, con cui è legato fra l’altro da un trattato di amicizia ultracentenario e da rapporti molto intensi di ogni genere. La riapertura del dialogo con la Svizzera, promessa in diversi incontri anche ai massimi livelli non può essere più procrastinata. Se per stipulare l’accordo in vigore sulla doppia imposizione del 9 marzo 1976 la Svizzera ha dovuto aspettare mezzo secolo, oggi diventa intollerabile un rinvio anche solo di pochi anni. E se il Consigliere federale Georges-André Chevallaz nel 1976 riteneva che, viste «altre priorità» che il governo italiano già allora aveva da sbrigare, «un délai de patience peut et doit lui être accordé», oggi la riserva di pazienza nella controparte svizzera è esaurita, soprattutto nel Cantone Ticino, come dimostrano le recenti prese di posizione e decisioni anche di natura finanziaria. È pertanto auspicabile che il negoziato richiesto dalla Svizzera si apra con urgenza e ponga fine a questa diatriba che comporta solo danni per entrambe la parti.
Detto questo, però, non credo che sia stata una buona reazione quella adottata a maggioranza dal Consiglio di Stato ticinese di congelare la metà del ristorno dovuto all’Italia sulla trattenuta fiscale dei salari dei frontalieri. Non entro nel merito, lasciando ai giuristi la qualificazione del fatto, anche se mi sembra uno dei principi fondamentali del diritto internazionale che i patti vadano osservati, pacta sund servanda, come insegnavano già gli antichi romani. Se i patti non convengono più si possono denunciare, ma finché sono validi vanno rispettati.
L’Accordo sui frontalieri va rispettato È noto che il Ticino e soprattutto la Lega dei Ticinesi vorrebbe includere nella trattativa con l’Italia anche il riesame dell’Accordo del 1974 sui frontalieri. Richiesta assolutamente legittima, tanto è vero che è stata accolta dal Consiglio federale. In questa richiesta, tuttavia, mi ha colpito in particolare un argomento proposto dal consigliere nazionale Lorenzo Quadri della Lega. Egli dice: «Al momento della stipulazione di tale accordo (1974), era fatto l’obbligo ai frontalieri di rientrare quotidianamente al proprio domicilio. A seguito della libera circolazione delle persone, tale obbligo è venuto a cadere e i frontalieri sono tenuti a rientrare solo una volta alla settimana». Ne consegue, secondo Quadri, che «il tasso di ristorno è legato al rientro quotidiano dei frontalieri italiani in patria». Francamente non mi sembra un buon argomento e non so dove Quadri abbia attinto le sue informazioni. A me risulta che l’Accordo del 1974, facilmente consultabile in Internet, non prevede alcun obbligo di rientro quotidiano e non fornisce alcuna definizione del «frontaliere». Aggiungo che non si trattò di una dimenticanza perché anche da parte svizzera si volle evitare una definizione precisa «perché avrebbe potuto portare pregiudizio ad altri accordi». Quanto alla frequenza dei rientri va ricordato che «la norma» del rientro quotidiano già allora non era sempre rispettata in alcuna parte della Svizzera, tant’è che la Commissione federale degli stranieri annotava nel 1973 che «da qualche tempo ci sono frontalieri che lavorano praticamente tutta la settimana in Svizzera», cioè rientrano al proprio domicilio solo al fine settimana. Questa pratica veniva tollerata non solo verso i frontalieri italiani , ma anche verso quelli tedeschi e francesi. Essa era ben nota ai negoziatori italiani e svizzeri (compresi i rappresentanti del Cantone Ticino) e ciononostante l’Accordo che prevedeva originariamente un tasso di ristorno del 40% (ridotto nel 1984 al 38,8%) venne ratificato senza tante discussioni dalle Camere federali all’unanimità.
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