“Dove deve pagare le tasse un lavoratore italiano residente nel Regno Unito che lavora in “smart working” (telelavoro) per un società italiana? La risposta è che il regime fiscale applicabile è quello del Regno Unito. Il quesito era stato posto all’Agenzia delle Entrate da una società italiana (con sede a Genova) del settore del software che aveva assunto un lavoratore – cittadino italiano iscritto all’Aire – al quale aveva concesso la temporanea possibilità di svolgere la sua attività nello Stato di residenza. Il lavoratore ha quindi svolto la sua attività presso la propria abitazione nel Regno Unito, con decorrenza dal 1° agosto 2017 e sino al 31 agosto 2019, termine prorogato fino al 31 luglio 2021”. Lo si legge in una nota dell’On. Angela Schirò, Pd.
“L’attività di lavoro si è svolta con il personal computer dell’azienda, attraverso una connessione alla rete informatica dell’azienda, operando direttamente su archivi creati o presenti nei server presso la sede dell’azienda. Il lavoratore, infatti, è stato abilitato ad accedere, tramite la VPN, alla rete aziendale con accesso alle risorse interne (dischi di rete, archivi autorizzati, ecc.).
La società di software ha chiesto all’Agenzia delle Entrate di conoscere se, per gli emolumenti erogati a fronte delle prestazioni svolte nella modalità del telelavoro da parte del dipendente residente nel Regno Unito – con il quale è in vigore la Convenzione per evitare la doppia imposizione – fosse obbligata, ai sensi dell’articolo 23 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, a effettuare le ritenute a titolo d’acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche ovvero se, in base alle disposizioni contro la doppia imposizione, detti emolumenti non siano fiscalmente rilevanti in Italia e quindi non soggetti alle predette ritenute.
L’Agenzia ha risposto che in virtù delle disposizioni nazionali (art. 23 del Tuir) e convenzionali (art. 15 della convenzione contro le doppie imposizioni fiscali tra Italia e Regno Unito) è prevista la tassazione esclusiva dei redditi da lavoro dipendente nello Stato di residenza del beneficiario, a meno che l’attività lavorativa, a fronte della quale sono corrisposti i redditi, sia svolta nell’altro Stato contraente (cioè l’Italia: ipotesi in cui i predetti emolumenti sono assoggettati a imposizione concorrente in entrambi i Paesi).
Ma cosa si intende per “luogo di prestazione” dell’attività lavorativa nella particolare ipotesi di svolgimento della prestazione medesima nella modalità del telelavoro?
Lo spiega l’Agenzia delle Entrate nella sua risposta (la 296 del 27 aprile 2021) dove indica che un utile riferimento interpretativo è fornito dal commentario all’articolo 15, paragrafo 1, del modello OCSE di convenzione per eliminare le doppie imposizioni, secondo il quale per individuare lo Stato contraente in cui si considera effettivamente svolta la prestazione lavorativa, bisogna avere riguardo al luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercita le attività per cui è remunerato. Pertanto, anche se i risultati della prestazione lavorativa sono utilizzati in Italia dalla società committente, la tassazione del reddito deve avvenire solo nel Regno Unito, Paese in cui il telelavoratore è fisicamente presente e fiscalmente residente quando svolge la propria attività lavorativa”.
“Ne consegue – conclude la deputata dem – che, non avendo i predetti emolumenti rilevanza fiscale in Italia, la società datrice di lavoro, nella qualità di sostituto d’imposta, potrà applicare direttamente, sotto la propria responsabilità, il regime convenzionale con il Regno Unito, non operando le ritenute alla fonte, previa tuttavia presentazione da parte del telelavoratore di idonea documentazione volta a dimostrare l’effettivo possesso di tutti i requisiti previsti dalla Convenzione per beneficiare del regime di esenzione”.